Si arriva a S. Caterina percorrendo la fondamenta che porta lo stesso nome.
Alla fine del canale sulla sinistra sarà un piccolo e bel campanile a dirvi che siete arrivati; la chiesa di S. Caterina ha infatti perso, lungo i secoli, le connotazioni caratteristiche degli edifici religiosi, così che la sua facciata dalle quattro finestre del primo piano si confonde facilmente con le altre case dell’isola.
L’elegante portone d’ingresso, coronato dalla antica lunetta di marmo scolpito, ci mostra il primo segno della sacralità del luogo.
Santa Caterina di Mazzorbo, unica rimasta di ben dieci chiese che nei secoli sono sorte in quest’isola, era annessa al monastero benedettino che le stava accanto. Fu costruita nel 783 stando alle cronache che il nobile patrizio veneto Bernardo Trevisan ricorda nel suo trattato sulla laguna del 1715[1]. Ovviamente di quella fabbrica non resta alcunché di originale; forse rimane l’antico uso del portico e magari una identica pianta, ma questo si potrà verificare soltanto con degli scavi archeologici.
Ciò che noi ora vediamo è quanto rimane di una fabbrica martoriata a più riprese da rifacimenti, amputazioni e “restauri” operati attraverso i secoli su un edificio che anche per queste ragioni non è facilmente databile. Lo stile romanico-gotico, che appare prevalere nelle sue strutture murarie, può indicarci la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV come probabile data della sua ricostruzione.
La data del 1291, che alcuni riportano come sua fondazione e che a chiarissime cifre è scritta sulla parete in alto del coro, viene erroneamente attribuita a questo monastero di Mazzorbo, mentre essa deve essere riferita alla fondazione della chiesa dell’omonimo monastero di S. Caterina di Venezia, la cui storia sarà trattata quando si parlerà della pittura eseguita sulle tavole alte del coro.
Ma torniamo all’esterno.
A destra della
facciata, un muro molto antico corre sino al fabbricato che chiude la
fondamenta e che costituiva la antica foresteria del Convento.
Fino a non molti anni fa veniva chiamata Ricevitoria per essere stata adibita per diverso tempo ad uso del Dazio prima che questo passase a Murano[2].
A sinistra, in quello spazio aperto che oggi viene usato per i giochi, vi era il monastero delle monache benedettine di S. Caterina, abbattuto dopo la soppressione napoleonica del 1806.
C’è da dubitare che la facciata fosse così come la vediamo noi ora, sia per la stranezza delle quattro finestre disadorne e prive di quel minimo di cornice marmorea che si addice alla facciata di una chiesa, sia per quelle due grandi finestre che si intravedono murate nella loro parte bassa e che paiono tagliate dalla attuale cornice del tetto.
Non credo di sbagliare affermando che la demolizione del monastero, che come ho accennato era congiunto alla chiesa, creò dei problemi alle strutture lignee delle capriate, che vennero risolti con questa insolita soluzione del tetto spiovente verso la fondamenta, e che determinò la modificazione della facciata e la riduzione della sua altezza.
Suffraga questa tesi il disegno di Giacomo Guardi[3] in cui l’artista traccia con segno veloce ed essenziale lo schizzo delle fabbriche di S. Caterina e delle Cappuccine e, con sorpresa, ci mostra la facciata della chiesa con un timpano e un grande rososne al centro. Potrebbe trattarsi anche di una invenzione dell’artista, che io però escluderei tenuto conto della sufficiente precisione con cui vengono descritti gli altri edifici (si veda il campanile e l’esatto rapporto con cui sta alla copertura della chiesa).
Qualunque fosse in origine la facciata, di questa ci resta un bel portale sormontato da una lunetta marmorea scolpita, raffigurante le nozze mistiche di Santa Caterina e due Donatori. Cristo è seduto in trono con, nella mano sinistra , un libro aperto, dove si legge “EGO SUM LUS MUNDI”, mentre con la destra infila l’anello al dito della santa inginocchiata.
Fra loro di dimensioni più ridotte l’abbadessa Elisabetta Dolfin, e dall’altro lato il Procuratore del monastero di cui non si conosce il nome. Il alto, ai lati del trono, due angeli oranti.
L’iscrizione che troviamo sulla parte destra con la data 1368, recita così: “MCCCLXVIII DIE P / RIMO DE NOVEMBRIO FO FAT / O QUESTO LAVORIERO I TENPO DE / LA EGREGIA E NOBELE E RELIGILIO / SA MADONA BETA DOLPHIN REVE / RENDA BADESA DE QUESTO L / OGO SIANDO PROCURATO / OR” e qui l’iscrizione resta incompleta.
Il rilievo, racchiuso entro un frontone lavorato, è custodito da due snelli pilieri laterali.
L’opera di un certo pregio artistico rivela chiare affinità stilistiche con lavori scultorei del medesimo percosso nell’ambito veneziano, in specie con opere che decorano il Palazzo Ducale. Si tratta di livelli qualitativi diversi ma rivelatori di una medesima scuola; Il Walters rileva nelle “nozze mistiche” “notevoli affinità stilistiche con alcuni capitelli della Basilica di Aquileia scolpiti pochi anni dopo (circa 1370) e specialmente con quelli fatti da uno scultore veneziano che deve aver conosciuto la decorazione di Palazzo Ducale.” E continua “Anche nel nostro rilievo, di certo senza pregi artistici notevoli, possiamo riconoscere, soprattutto nei volti, riflessi delle opere del Calendario e dei suoi collaboratori ed imitatori create prima ancora della metà del secolo”[4].
Sul massiccio portone di legno, al centro dei riquadri superiori, si notanoincisi gli stemmi della famiglia Michiel, dai caratteristici “dischetti” disposti in sei file: di questa nobile famiglia veneziana avremo occasione di parlare ancora dato che la chiesa e il monastero di S. Caterina furono ad essa molto legati.
Superato l’andito, scendiamo due scalini che ci conducono in un suggestivo atrio che precede la chiesa e che è aperto a destra su di un piccolo cortile interno da cui prende luce; il pavimento dell’atrio è in mattoni disposti a spina di pesce.
Tre archi a tutto sesto, in pietra bianca di Rovino, sostenuti da due brevi colonne, separano il cortiletto dall’atrio suggerendo l’idea del classico portico, antico luogo aperto e ritenuto sacro, antistante la chiesa e riservato alla sosta dei penitenti[5].
Gli archi e le colonne dai semplici capitelli dall’accento ionico sono opera di maestro Pietro, figlioi di Alberto Lima, tagliapietre in contrà S. Angolo, come risulta dall’accordo scritto del 2 dicembre 1552, stipulato a Venezia fra i Procuratori delle monache di S. Caterina, Federico Moresini e Salvador Michiel con il maestro Pietro.
Il documento è conservato nell’archivio del monastero di S. Caterina che si trova presso l’Archivio di Stato di Venezia. Nell’accordo si legge: “Tre volti et doi cholone et doi mezi chapiteli eet le sue banchete sotto il portelo di la giexia, monthà ducati 26”. Oltre a ciò si convenne per molti altri lavori di abbellimento, come molte finestre, porte, grondaie e sette archi con relative colonne per il chiostro interno al monastero e delle quali si precisava che fossero: “…di grossessa come quelle che al presente sono in opera in ditto monestier …” (A.S.V., S. Caterina di Mazzorbo, busta n. 13 processo n. 126).
Nella polizza del 26 ottobre 1554, sempre conservata all’Archivio di Stato, il maestro Pietro Lima fa un lunghissimo elenco dei lavori in pietra viva “mexuradi per maistro Zuane Protto a li Provedidori di chomun et qui soto sarà notati” fra i quali una vera da pozzo, una porta per una “scala a muro” e lavori per il refettorio e il dormitorio del monastero.
Alle pareti del portico sono fissati alcuni interessanti frammenti di cornici e plutei molto antichi che probabilmente sono quanto resta di una raccolta più numerosa di frammenti della quale si può, fra l’altro, desumere l’esistenza dal Lorenzetti quando ricorda :”…i frammenti di antiche sculture, cornici, patere ecc…” nella sua guida di Venezia e il suo estuario[6].
Sulla parete ovest, a destra entrando nell’atrio, è fissato un frammento di pluteo, sec. IX – X, marmo, cm. 74x56, mutilo lungo tre lati di parti monto consistenti, che presenta numerose scheggiature ed abrasioni che impediscono l’esatta lettura di alcuni dettagli decorativi. Nell’insieme la superficie marmorea è porosa e ruvida, sì che il rilievo geometrico risulta impastato e non facilmente definibile.
Due grandi cerchi, appoggiati sul listello inferiore, formati da quello che si intuisce essere un nastro a tre vimini, si toccano in un punto e formano sotto ad esso uno spazio di risulta dove due pavoni affrontati si abbeverano ad un cantaro nel classico tema iconografico paleocristiano.L’elegante tema geometrico della treccia viminea, assai diffuso in sculture della diocesi porcellana e di Venezia, assieme alle analogie stilistiche di plutei marmorei del IX-X secolo conservati a Torcello [7], fanno ritenere l’esecuzione quale opera di bottega veneziana.
Sulla parete est un frammento, sec. XI-XII, marmo, cm. 87x74, mutilo in tre lati con numerose scheggiature ed abrasioni che rendono difficile la lettura delle incisioni superficiali mentre è ancora sufficientemente chiaro l’insieme grazie alle scalpellature più profonde degli spazi di risulta.
Il frammento, che appartiene forse ad una sovrapporta, ci mostra a destra l’immagine della Madonna racchiusa in un intreccio vimineo a forma di mandorla che è sostenuto ed incorniciato sulla sinistra da due angeli. Questo frammento faceva parte di un pluteo in cui la figura della Madonna era al centro e nella parte ora mancante a destra ripeteva le figure di altri due angeli.
In alto si intravede la veste pieghettata di un santo e in basso a sinistra, nell’angolo formato dai due listelli della cornice, si intuiscono due uccelli affrontati che si abbeverano; e sotto il clipeo, nel mezzo, dodici piccole figurine a mezzo busto fanno pensare ai dodici apostoli. Il frammento va collocato nell’ambito del XI o XII secolo (cfr. Polacco, 1981)[8].
Ed ancora un frammento di cornice, sec. XI, marmo, cm. 15x30, mutilo in tutta la parte superiore, non raggiunge metà dell’altezza della cornice, con scheggiature ed abrasioni diffuse.
Di questo piccolo frammento si può ancora leggere la parte bassa di una voluta di un tralcio nel cui interno si nota quanto resta di una piccola foglia o motivo floreale. A sinistra, racchiuso nei girali del tralcio, di cui si vede il segmento finale ritorto a riccio, si intuisce un uccello dalla lunga coda. Questo tema decorativo presenta analogie con fregi giacenti presso il chiostro di S. Apollonia e con quelli conservati a Torcello (cfr. R. POLACCO, in Museo di Torcello, cat. N.58, pag. 72). Gli elementi stilistici che si possono intravedere fanno pensare alle sculture ornamentali dell’XI secolo[9].
Due altri piccoli frammenti di cornice, sec. IX-X, con profonde ed estese abrasioni e scheggiature. Probabilmente questi due reperti appartengono alla medesima cornice decorata da un intreccio a tre vimini. Nel frammento più piccolo si nota una piccola spirale che forse faceva parte di una decorazione a gattoni[10].
I reperti vanno collocati nell’ambito del IX-Xsecolo.
E’ interessante il piccolo frammento di terracotta gialla, sec. VI (?), cm. 28x17, con scheggiature ed abrasioni specie nella parte sinistra. Due losanghe digradanti e tondeggianti sono disegnate da solchi profondi che oltre a definire i listelli dei bordi disegnano quattro triangoli. Questo tema decorativo a losanghe era assai diffuso nel VI secolo; si deve pensare che questo frammento facesse parte di una cornice in terracotta probabilmente prelevata da edifici della vicina città di Altino[11].
Una semplice lapide, datata 2 giugno 1983, ricorda i restauri del campanile della chiesa e dell’atrio stesso, essendo parroco don Ettore Fortezza.
Sulla sinistra dell’atrio una porta ci conduce nell’ufficio parrocchiale, anticamente adibito a portineria del monastero: il locale era diviso in due stanze, l’ultima di queste aveva la porta di comunicazione con il monastero ed anche un balconcino che ancora oggi si vede accecato all’interno dell’atrio.
Sopra la porta di questo ufficio è collocato un rilievo marmoreo (88x77): “Madonna con Putto” della fine del XIII secolo[12]. La Madonna, seduta in un largo trono su cui poggia un cuscino regale, tiene in grembo il Bambino che con amorevole gesto le tocca le dita. Un ampio maphorion scende dal capo della Madonna e la avvolge con eleganti e ricche volute sino ai piedi che poggiano sopra un piccolo cuscino.
La positura lievemente divaricata della gamba destra suggerisce qualche accostamento con il Cristo Redentore della Pala d’oro marciana e con la Vergine in trono di Grado[13]. L’opera di buona fattura, su cui sono incisi i monogrammi greci MP OY (Méter Theù, Madre di Dio), è, a mio parere, di particolare fattura per l’originalità del trono che, oltre alla forma ellittica del dossale, presenta scolpito con minuzioso dettaglio, sulla parte anteriore, una bifora ed altre tre finestre di varia misura.
E’ singolare, e di certo non casuale, l’evidente richiamo all’immagine di una casa o di un palazzetto lagunare, come molti ancora oggi si vedono (palazzo del Consiglio a Torcello, oppure i palazzetti lungo il canale di Mazzorbo), su cui la Madonna è seduta quasi a celeste protezione.
Ai lati del trono due angeli con le braccia e le mani coperte da una stoffa drappeggiata nel modo bizantino.
La tradizione orale che si tramanda qui a Mazzorbo vuole che questo rilievo dell’atrio provenga dalla chiesa della Madonna delle Grazie che era annessa al monastero delle Eremite Cappuccine di Mazzorbo, ed è per questo motivo che questa Madonna viene chiamata anche Madonna delle Grazie[14].
Per concludere la visita all’atrio, ricordo le due lastre tombali poste sul pavimento immediatamente prima della porta di ingresso alla chiesa.
La più grande ha ormai perso ogni traccia di iscrizione, mentre la più piccola, che proviene dall’Oratorio di San Bartolomeo[15], copriva le spoglie mortali del nobiluomo Antonio Grimani, patrizio veneto morto il 7 febbraio 1818 come a mala pena si legge nell’iscrizione consunta.
[1] B. TREVISAN, Della laguna di Venezia, Venezia 1715.
[2] A questo proposito desidero riportare una nota tratta dalle memorie di don Camozzo in sui si dice: “Quando il Comune venne in possesso dell’orto e del convento di S. Caterina, (…) si impegnò di contribuire alla Chiesa di Mazzorbo con un annuo canone di £. 43.20, ma poi nel 1873 venne sospeso. Del prato non sono molti anni si pagava l’affitto alla fabbriceria della Chiesa.” (don Camozzo, 1915).
[3] Le Cappuccine e S. Caterina di Mazzorbo in un disegno conservato a Venezia al Museo Correr, cl. III, n7255, esposto alla mostra L’altra Venezia di Giacomo Guardi del 1977, catalogo a cura di Attila Dorigato con la prefazione di Terisio Pignatti. Giacomo Guardi (1764-1835) figlio di Francesco, si specializzò in piccole vedute di Venezia e delle isole. La sua produzione grafica , come questi disegni di Mazzorbo, assume un certo interesse documentaristico.
[4] W. WALTERS, La scultura veneziana gotica 1300 – 1460, Venezia 1976, vol. I, pag. 198; H. von GABELENTZ, MittelalterKirche Plastik in Venedig, Lipsia 1903, pag. 217; P.TOESCA, Il Trecento, Torino 1951, pag. 418. Si potrebbe azzardare una somiglianza nei tratti espressivi del volto e nella capigliatura del Noè ebbro, scultura angolare di Palazzo Ducale verso il ponte della paglia (fine XIV sec.), con il Cristo in lunetta.
[5] Era uso molto antico a Venezia fra precedere la porta della chiesa da un portico, detto anche sottoportico dai veneziani. I portici ora esistenti, come quello della basilica di Torcello o di S. Giacomo di Rialto, non sono molti perché nel secolo XVI, o furono rimossi ovi si edificarono sopra delle case, vedi ad esempio S. Simeon Grando. Qui a S. Caterina, attraverso il portico si entrava anche nel monastero e sopra ad esso fu costruito l’accesso al coro pensile delle monache.
[6] G. LORENZETTI, Venezia e il suo estuario, Venezia 1926, pag. 829
[7] (R. POLACCO, in Museo di Torcello, n. cat. 25, pag. 34; R. POLACCO, Sculture paleocristiane e altomedioevali di Torcello, Treviso 1976, n. 55.
[8] R. POLACCO, Marmi e Mosaici paleocristiani e altomedioevali del Museo Archeologico di Venezia, ed G. Bretschneider, Roma 1981.
[9] R. POLACCO, Sculture …, n.107.
[10] R. POLACCO, Museo …, cat. N. 8, pag. 18.
[11] R. POLACCO, Sculture …, n.8.
[12]
D. von GABELENTZ, op. cit., pag. 156.
[13] A. NIERO, La pala d’argento di Torcello, op. cit., Venezia 1971, pag. 37.
[14] Dalle memorie storiche di don Camozzo. Devo aggiungere che questo rilievo era fisso, prima dei lavori del 1920, all’interno della chiesa, sulla parete sinistra della navata.
[15] Memorie storiche di don Camozzo.