IL monastero di S. Caterina

Anche se non è facile parlare di ciò che oramai da molti anni non esiste più, tenterò di immaginare – attraverso alcune testimonianze scritte – come poteva essere edificato il vecchio monastero benedettino, che fu distrutto nei primi anni dell’Ottocento per decreto del regno Italico, assieme a tantissimi altri edifici religiosi veneziani.

La cura con cui la mano militare ha compiuto lo scempio e i non pochi anni che sono accumulati da allora hanno contribuito a cancellare pressoché ogni traccia di quello che era l’antico e prestigioso convento di S. Caterina.

Non possiamo dimenticare le parole del frate Coronelli che nel 1698 [1] così descriveva riferendosi ai monasteri di Mazzorbo:” Negli accennati Monasterj risplende la Veneta Nobiltà che con dispregio del fasto secolare vede le proprie Figlie rinchiudersi in religiosissimi Chiostri, allettate forse o dall’antichità venerabile de’ Santuari, arricchiti di varie ed insigni Reliquie, o dall’amena solitudine dell’Isola …”.

Cosa resta di ancora visibile di codesto Convento? Molto poco, soltanto alcuni segni che testimoniano la antica presenza degli edifici conventuali che senza alcun dubbio erano addossati alla parete nord della chiesa.

Tormentata dall’aspra disposizione dei suoi mattoni, priva della decorazione a lesene della parete sud, si mostrano su di essa vistose tracce di porte e finestre accecate, di superfici parzialmente rinnovate di mattoni e la presenza di pietre vive collocate a distanza regolare, secondo una presumibile necessità costruttiva.

monastero di santa Caterina di Mazzorbo isola di Mazzorbo, laguna di Venezia

 

 

 

 

 

 

Inoltre rimane il bel campanile che, come si è detto, era circondato ed inglobato negli edifici monastici; rimane la sagrestia grande che era la stanza per la S. Comunione delle Monache; rimane il locale che fungeva da portineria che si trova nell’atrio a destra; rimangono infine le stanze, ora adibite a canonica, che  un tempo facevano parte del convento e si usavano come coro ed anti-coro.

Dell’antico monastero, come si vede, rimangono quelle parti che venivano usate dalla chiesa annessa, e sono purtuttavia anche queste insufficienti a ricostruire con una buona approssimazione ilo complesso edilizio che la sua secolare esistenza avrà di certo reso variamente articolato.

Negli archivi del monastero si custodisce un unico disegno, una piantina presumibilmente cinquecentesca che ci rappresenta la disposizione planimetrica di una parte del convento, ma essendo priva di orientamento o di sicuri riferimenti oggi riconoscibili, costituisce soltanto un aiuto alla ricostruzione che rimane affidata ad una certa dose di immaginazione [2] .

Ma torniamo alla parete di tramontana della chiesa e osserviamola con più attenzione: noteremo che al primo piano verso la fondamenta è visibilmente murata una porta che deve senz’altro riconoscersi come il passaggio dal monastero al Coro della Chiesa.

Da questa grande apertura, infatti, si accedeva ai locali sovrastanti l’atrio e cioè al Confessionale (che era la stanza riservata al Padre Confessore), quindi all’anticoro e finalmente al Coro vero e proprio, che si protendeva nella navata e che era quotidianamente frequentato dalle monache per assistere alle funzioni religiose.

E’ immaginabile che durante queste funzioni le monache si spostassero in processione sino alla stanza riservata alla S. Comunione adiacente al presbiterio.

Le monache uscivano dal Coro, percorrevano un corridoio che fiancheggiava al primo piano la parete della chiesa, quindi, attraverso una scala che doveva essere  sistemata vicino al campanile, giungevano nella stanza riservata alla Comunione, che aveva infatti una grande finestra, dalle fitte grate dorate che si apriva sul presbiterio [3] .

Un’altra possibile ipotesi potrebbe essere che vicino alla portineria del monastero, esistesse uno scalone principale per l’accesso al piano superiore; potrebbe perciò essere che le monache uscite dalla porta, ora murata, scendessero da questo scalone e percorressero il lato del Chiostro vicino alla chiesa ed entrassero nella stanza della Comunione per la sua porta esterna che oggi è nascosta dal passaggio semicircolare che si vede nell’angolo.

Il corridoio era sostenuto a pian terreno dalle arcate del Chiostro che girava attorno a questo spazio ora cementato. Una finestra, che si ricorda ben protetta, era aperta nel muro della chiesa in corrispondenza della parete sottostante il coro, e sempre li vicino, vi era la “ruota” che serviva a far passare in chiesa i paramenti sacri che di giorno in giorno occorrevano.

Non esisteva invece quel muro ad arco di cerchio che si vede addossato nell’angolo fra la chiesa ed il campanile: si tratta di un passaggio costruito dopo l’abbattimento del monastero, che serviva di comunicazione fra  la ex sagrestia grande e la chiesa quando non era ancora stata aperta la porticina a fianco dell’altar maggiore.

 

 

 

 

 

La maggior parte delle numerose celle monacali, una quarantina circa [4] , erano sistemate al primo piano nell’area vicino al campanile; lo si deduce dal fatto che queste celle vengono menzionate in occasione dei danni provocati da pezzi di campanile che si staccarono nell’agosto 1629 a causa di un fulmine che lo colpì [5] . La Mappa napoleonica ci fa vedere con chiarezza l’ampio chiostro circondato da tre ali del monastero, alle quali si aggiungono un cortile e gli orti sistemati nell’altra parte dell’isola.

Un monastero abbastanza grande, che contava molti ambienti fra parlatori interni ed esterni, passaggi, corridoi, scale e magazzini. Al pian  terreno la Sala del Capitolo, il Refettorio, la cucina e i vari luoghi di lavoro, i laboratori, l’archivio, la spezieria (una sorta di farmacia), l’orto, la caneva per le botti, le cavane (delle quali viene menzionata una verso Burano in una nota lavori del 1726) [6] , il “badessato” che era un vero e proprio appartamento, il chiostro e alcuni piccoli cortili [7] .

Come ho già ricordato con le parole del Coronelli, le monache accolte in questo convento appartenevano alle famiglie patrizie veneziane dai nomi più illustri come i Morosini i Badoer e i Michiel solo per citarne alcuni, vale perciò la pena di trascrivere l’”obedienza” registrata negli Atti e Decreti Capitolari del 8 maggio 1594 essendo Abbadessa la Reverenda Madre suor Vittoria MOROSINI.

Si riportano i nomi delle monache raggruppati a seconda dei compiti conventuali loro assegnati:

Sagrestane: suor Cattarina BADOER – suor Perpetua PARUTA – suor Daria MORESINI – suor Cornelia BEMBO; 

camerlenghe: suor Felicita PARUTA – suor Candida GIUSTINIAN – suor Francesca SORANZO – suor Scolastica conversa; 

portinaie: suor Marita VENIER – suor Cecilia PIZAMANO;

infermiere: suor Cherubina BADOER – suor Corona SORANZO – suor Angola da MOLIN – suor Andriana DONA’ – suor Verginea BARBARIGO – suor Arcanzola SORANZO – suor Maura conversa;

canevere: suor Julia BON – suor Jsabeta BARBARO – suor Eugenia MIANI – suor Faustina MARIN – suor Eccelsa SORANZO;

refitottere: suor Veneranda JUSTINIAN – suor Angelicha MARIN – suor Lucretia PARUTA;

vestiarie et vignere: suor Veneta MICHIEL – suor Regina MICHIEL – suor Monicha MIANI – suor Maria Eletta MORESINI;

sopra il pan: suor Crestina da MOLIN – suor Paula MICHIEL;

lavanderie: suor Margarita conversa – suor Madalena conversa;

sagrestana fuori: suor Petronila conversa;

sopra la forestaria: suor Polonia – suor Placita;

andar fuori per bisogni del Monastero: suor Lucia – suor Luana.

Tute le altre converse fa la cucina due per settimana et scovar il Monasterio: Jo suor Felicita PARUTA camerlengo datto principio à notar le ditte obedientie per obedir alli decreti del Ill.mo Mons. Vescovo nostro di Torzelo”.

Trovo interessante questo elenco sia perché ci permette di rilevare il numero delle monache verso la fine del XVI secolo erano presenti in S. Caterina, sia perché appare chiarissima la nobiltà della quasi totalità dei nomi, in base alla quale risulta anche evidente il tipo di mansione assegnata: alle monache non titolate i lavori più umili e gravosi [8] .

Si deve ritenere che non mancasse loro la possibilità di vivere e mantenersi senza eccessive preoccupazioni finanziarie, basti ricordare l’elenco delle rendite derivanti dalla proprietà di terreni in terraferma e delle numerose case a Venezia, oltre ai ricchi legati e alle donazioni testamentarie e alle doti delle nuove monache, per immaginare che per questi luoghi sacri monastici si spendesse del denaro in abbellimenti, arredi e decorazioni.

Il lungo elenco di quadri inventariati in occasione della soppressione napoleonica ne è una sia pur parziale testimonianza: “nelle due celle erano sotto sigillo novanta quadri antichi, assortiti in parte con soasa oro e parte nere e 114 quadri di proprietà delle religiose” [9] .

All’inizio di questo capitolo si parlava di una piantina conservata nell’Archivio di Stato di Venezia: si tratta di un disegno, quasi uno schizzo, probabilmente eseguito per i lavori di restauro del 1554 [10] .

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La piantin a ci fa vedere alcuni locali a pian terreno: da sinistra i magazzini, la cucina, il refettorio, la Sala del Capitolo e un ampio locale adibito a laboratorio.

Nel disegno si vede anche rappresentato, con i simboli degli archi, il chiostro con al centro la vera da pozzo che non è disegnata ma indicata da una scritta.

Non è facile orientare correttamente la piantina, forse la scritta sulla destra “giexia” la chiesa ci indica che in quel punto vi doveva essere la congiunzione con la stanza che serviva per la S. Comunione delle monache.

L’ipotesi che avrebbe bisogno di qualche altro documento per assicurare maggiore attendibilità farebbe risultare il campanile inglobato negli edifici del monastero e potrebbe anche essere confermata dalla corrispondenza delle misure indicate in piedi della piantina, con quelle prese dalla mappa napoleonica di Mazzorbo. Gli edifici sarebbero così esattamente contenuti entro i confini dell’isoletta in cui era edificato il monastero.

Nella mappa si nota il muro che proteggeva all’esterno l’area conventuale; questo muro ancora adesso esiste lungo due lati.

Anche il monastero benedettino di S. Caterina si deve ritenere valida la datazione sostenuta dal patrizio Bernardo Trevisan che fa risalire la sua fondazione al 783. E’ una data molto verosimile se si considera il grandioso sviluppo che ebbero le piccole comunità monacali benedettine attorno al VII e VIII secolo, in una espansione generata dalla nuova Regola Monacale, nata a Montecassino nel 529 da S. Benedetto da Norcia, che rivoluzionò i vecchi fini di ascesi individuale e di fuga dal mondo per adottare i criteri di attivo e operoso lavoro collettivo sintetizzato nel motto: Ora et Labora.

La tradizione vuole che il monastero benedettino di S. Giovanni Evangelista di Torcello  fosse il luogo sacro della laguna dove per primo si raccolsero le monache benedettine; esso fu fondato nel 640 dall’ultimo Vescovo di Altino, e dal suo successore Mauro. Furono in seguito fondati, sempre a Torcello, anche il monastero benedettino di S. Antonio e quello di S. Miche Arcangelo detto Sant’Anzolo de Zampenigo, a Burano quello di S. Mauro e a Mazzorbo i monasteri benedettini di S. Eufemia, di S. Matteo (S. Maffio). Di S. Maria Valverde ed il nostro di S. Caterina [11] .

La più antica menzione del Monastero di S. Caterina, secondo il Corner, si trova negli atti del Sinodo Diocesano, convocato nel 1374 da Filippo Balardo vescovo di Torcello, sui quali fra l’altro si legge:” sottoscritto Giacomo Mazemano prete, per nome del monastero di Santa Caterina di Mazzorbo”.

Alcuni documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia smentiscono l’affermazione del Corner, infatti fra di essi vi è una pergamena antica del 30 marzo 1349: si tratta di una quietanza della abbadessa di Santa Caterina di Mazzorbo  Filippa Polo. E va anche ricordata un’altra pergamena datata 1363 [12] .

Ma un documento altrettanto antico ed importante – non dimentichiamolo – è la bella lunetta marmorea scolpita e data 1368 posta sopra il portale d’ingresso della chiesa, dove si legge il nome della badessa Beta Dolphin.

Al di là della documentazione originale, esistono altresì delle copie del XVI, del XVII secolo di documenti in sui si leggono riferimenti ad altri più antichi documenti che venivano riproposti in alcune liti per aver ragione su dei confini o delle proprietà in cui era coinvolto il monastero di S. Caterina.

Esiste in archivio una copia cartografica del XVI secolo eseguita a sua volta da una copia datata ottobre 1106 scritta a Rialto dal notaio Celsus Montanarius da originale del notaio Domenicus, di un documento privato del maggio 1084, scritto a Rialto e relativo ad una terra sita a Lido Bianco.

Il monastero di S. Caterina di Mazzorbo si richiama a questo documento per certificare il possesso di questa terra in una lite contro l’Ospedal di Zanne di Murano [13] . Si tratta di una documentazione che , sia pure in copie, testimonia con atti notarili di rilevanza storica, l’antichità di questo monastero.

Il 15 luglio 1432 il Vescovo di Torcello Filippo PARUTA ordinò la soppressione del monastero benedettino di S. Nicolò della Cavana oramai disabitato, disponendo che esso fosse unito e sottoposto alla stessa Abbadessa del monastero di Santa Caterina [14] ; nello stesso giorno congiunse ad esso anche il Monastero di Santa Maria Maddalena della Cajada, situato in una piccola isoletta poco lontano da Torcello.

Alcuni documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia smentiscono l’affermazione del Corner, infatti fra di essi vi è una pergamena antica del 30 marzo 1349: si tratta di una quietanza della abbadessa di Santa Caterina di Mazzorbo  Filippa Polo. E va anche ricordata un’altra pergamena datata 1363 [12] .

Ma un documento altrettanto antico ed importante – non dimentichiamolo – è la bella lunetta marmorea scolpita e data 1368 posta sopra il portale d’ingresso della chiesa, dove si legge il nome della badessa Beta Dolphin.

Al di là della documentazione originale, esistono altresì delle copie del XVI, del XVII secolo di documenti in sui si leggono riferimenti ad altri più antichi documenti che venivano riproposti in alcune liti per aver ragione su dei confini o delle proprietà in cui era coinvolto il monastero di S. Caterina.

Esiste in archivio una copia cartografica del XVI secolo eseguita a sua volta da una copia datata ottobre 1106 scritta a Rialto dal notaio Celsus Montanarius da originale del notaio Domenicus, di un documento privato del maggio 1084, scritto a Rialto e relativo ad una terra sita a Lido Bianco.

Il monastero di S. Caterina di Mazzorbo si richiama a questo documento per certificare il possesso di questa terra in una lite contro l’Ospedal di Zanne di Murano [13] . Si tratta di una documentazione che , sia pure in copie, testimonia con atti notarili di rilevanza storica, l’antichità di questo monastero.

Il 15 luglio 1432 il Vescovo di Torcello Filippo PARUTA ordinò la soppressione del monastero benedettino di S. Nicolò della Cavana oramai disabitato, disponendo che esso fosse unito e sottoposto alla stessa Abbadessa del monastero di Santa Caterina [14] ; nello stesso giorno congiunse ad esso anche il Monastero di Santa Maria Maddalena della Cajada, situato in una piccola isoletta poco lontano da Torcello.

vera da pozzo del monastero di santa caterina di Mazzorbo, isola di Mazzorbo, laguna di Venezia

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Monastero di Santa Caterina di Mazzorbo resterà abitato sino al 1807 quando le 26 monache benedettine furono congiunte al monastero di S. Giovanni Evangelista di Torcello in seguito al decreto napoleonico del 28 luglio 1806. Per quanto riguarda il numero delle monache che furono ospitate nel monastero di S. Caterina, questo si mantenne oscillante attorno a quaranta, per esempio nel 1696 se ne contano in un elenco di V. Coronelli nel suo Isolario, un totale di 141 monache in tutta Mazzorbo, 40 a S. Raffio, 33 a S. Eufemia, 23 a S.M. Valverde, 5 Romite Cappuccine e 40 a S. Caterina; nel 1736 nella visita pastorale del vescovo Diedo se ne contano 39 più dieci educande.

 

La badessa Maria Costanza Tirabosco fece “…allora portare segretamente i sacri corpi dei Martiri Adriano e Mario [15] nella sua abitazione a Venezia (s. Trovaso) ed  in accordo con il vicario di S. Basilio li fece porre nell’altare di S. Osvaldo nella chiesa stessa allora succursale di S. Trovaso” – come riferisce il Piva – “il Pievano di Burano, venuto a conoscenza del fatto, affinché quei sacri corpi non rimanessero fuori della diocesi, che ne era in possesso,  s’interessò per averli ed il 13 settembre 1810 furono solennemente trasportati a S. Martino di Burano, dove ancora adesso sono venerati [16] .


[1]   V. CORONELLI, Isolario dell’Atlante Veneto, parte I, Venezia 1696, pag. 33.

[2]   Questa piantina è uno dei rari disegni a noi pervenuti dell’Archivio del Convento ed ora sono conservati all’Archivio di Stato di Venezia. Bisogna aggiungere che i disegni relativi ai numerosi lavori eseguiti nel monastero dovevano essere molti se, come risulta dall’indice catastico essi furono raccolti tutti assieme; purtroppo nella busta d’Archivio non si trovano più, così che il lavoro di ricostruzione storica oltre ad essere più difficile, in molti casi è impossibile.

[3]   A.C.P. Venezia, Diocesi di Torcello, v. p. Diedo 1736; questa stanza è l’attuale ex sagrestia grande.

[4]   A.S.V., Demanio 1806-1813, 334. 1/18 – nel processo verbale del 30 maggio 1807 quando venne stilato l’inventario per la consegna al militare, fu eseguita una descrizione sommaria dei locali del monastero tenendo presente il numero dei letti che si sarebbe potuto sistemare nella ipotesi di una sua futura trasformazione in caserma. Nell’elenco si contano ben 44 camere di varia ampiezza ed il totale dei posti letto stimati dalla autorità militare fu di 264 letti.

[5]   A.S.V. S. Caterina di M.bo, b.1, Atti e Decreti Capitolari.

[6]   Nota lavori del 1726. A.S.V. S. Caterina M.bo, b.13/126.

[7]   A.S.V., Demanio, 408, III, 2/48.

[8]   A.S.V., S. Catarina di Mazzorbo, b.1 in Atti e Decreti Capitolari 1509-1747.

[9]   A.S.V. Demanio, 408, III, 2/48.

[10]   Si tratta di lavori molto importanti ordinati quando erano Procuratori del Monastero i nobili Federico MOROSINI e Salvador MICHIEL, al Maestro Piero figlio del Maestro Alberto LIMA tagliapietre. Lavori misurati dal maestro Zuane Proto a li Provveditori de Comun ed elencati in una nota del 26 ottobre 1554 in cui fra l’altro si nominano: Le colonne per la cucina, una vera da pozzo, le colonne e i volti del chiostro, numerosissime porte e finestre, per indicare solo alcune delle più importanti opere eseguite in quell’occasione. (A.S.V., S. Caterina Ve. b.13/126). L’impegno finanziario fu notevole, di oltre 5000 ducati, che non doveva essere poco se si considera che un artigiano veramente qualificato, come poteva essere un carpentiere caposquadra, difficilmente arrivava a 100 ducati all’anno (F.C.LANE, op. cit., TO 1978, pag. 182).

[11]   La diffusione di queste comunità religiose benedettine in laguna nasce dalla distruzione del monastero di S. Stefano di Altino nel VIII secolo da parte dei Franchi agli ordini di re Pipino che costrinsero i monaci benedettini a rifugiarsi nell’isola di S. Servolo (L. GALLIO, Abbazia di S. Ilario, Venezia 1964, pag. 35). La presenza dei monaci da S. Servolo si allargò a Malamocco quando in esso vi fu trasferita la sede ducale ed infine nel famoso monastero benedettino di S. Ilario fondato nel 828 come risulta dal testamento del doge G. Partecipazio.

[12]   A.S.V., S. Caterina di Mazzorbo, busta n.12, processo n.121.

[13]   L’avvocato Luigi Lanfranchi, già direttore dell’Archivio di Stato di Venezia, ha curato il Codice diplomatico veneziano, ossia la raccolta e trascrizione delle pergamene fino al 1199.

Aggiungo che di questo documento del 1084 esiste un’altra copia cartografica del XVII secolo contenuta nel processo n. 26, parte III, cc. 1r-2r.

[14]   Il Corner aggiunge che nel 1648 l’isolsa di san Nicolò della Cavana fu abitata da due eremiti ma solo per breve tempo, finchè nel 1712 un pio uomo veneziano, un certo  Pietro Tabacco, rifabbricò la chiesa dedicandola a Maria Vergine Santissima sotto il  titolo del suo Rosario e vi costituì una Pia Confraternita di devoti.

[15]   Il Corner ricorda la presenza di due urne di marmo contenenti i sacri corpi di S. Adriano e di S. Mario, martiri ritrovati nelle catacombe romane (F. CORNER, op.cit., pag. 598.

[16]   V. PIVA, op. cit., I, pag. 203.