Nella quiete lagunare di queste isole, fra barene e canneti che si stagliano sul largo orizzonte, Mazzorbo, quasi dimenticata, si allinea solitaria con le sue antiche e semplici case lungo l’omonimo canale che la divide.
E’ difficile immaginare che al posto di questo prezioso silenzio, fra questi orti, nel verde di queste isole, si possa nascondere la storia di un luogo da cui ebbe origine Venezia.
Mazzorbo, importantissimo centro del vicino “Emporion mega” [grande emporio] di Torcello[1], oggi non mostra di sé alcuna testimonianza della ricchezza dei suoi antichi edifici e delle numerose attività che di certo la rendevano un importante nodo commerciale lagunare.
Fu nel X secolo che nelle isole torcellane si raggiunse il massimo splendore, quando in esse si concentrò il mercato internazionale degli schiavi, del legname e delle merci di lusso orientali, che fece di Venezia la regina dell’Adriatico e passaggio obbligato tra Oriente ed Occidente.
Ma di ciò si avrà – con obiettività e concretezza – una documentazione esatta, soltanto quando si deciderà per una ampia ed approfondita campagna di scavi. Solo così potremo arrivare alle testimonianze, di sicuro valore storico, nascoste nel sottosuolo delle isole lagunari, fonti dirette della più antica storia dell’Estuario.
Attorno all’anno mille, Mazzorbo, a causa del progressivo ruolo egemone che assunse Rialto, andò perdendo la sua importanza economica per acquistare una nuova veste di centro di vita religiosa. L’ intensa attività monastica e il forte richiamo che il possesso di insigni reliquie e spoglie di Santi e Martiri esercitava sulle popolazioni fece di Mazzorbo un vero concentrato di Monasteri e Chiese. Si pensi che in questo breve spazio di terra, molto più stretto di quanto non sia ora[2] , vi erano cinque monasteri: S. Eufemia, S. Maffio, S. Maria Valverde, S. Maria delle Grazie e S. Caterina; e ben cinque parrocchie: S. Pietro, S. Bartolomeo, S. Angelo, S. Stefano e Ss.Cosma e Damiano.
Non si creda che fossero dei modesti fabbricati di periferia, al contrario, bisogna immaginare che il fervore religioso rivolto a questi luoghi, alle loro reliquie e alla loro antica origine, concentrasse non poche ricchezze sia nei monasteri che nelle chiese.
Non bisogna dimenticare che in questi monasteri molto spesso avveniva l’educazione delle nobili fanciulle veneziane, e di questi nuclei religiosi erano procuratori proprio i patrizi delle più nobili famiglie. E così le chiese, come vedremo, custodivano molte opere d’arte dei più illustri pittori ed artisti, come i Vivarini, l’Ingoli, il Ponzone e persino Paolo Veronese, per non parlare delle sculture, delle lapidi e dei marmi molti dei quali trafugati dalla antica Altino.
Di questo patrimonio non resta visibile che la chiesa di Santa Caterina: le vicende storiche di tanti secoli, il trascorrere stesso del tempo, hanno nascosto ed in molti casi cancellato anche la traccia, i resti tangibili di un glorioso passato.
Il mio sforzo sarà appunto quello di farvi immaginare, con l’aiuto degli storici, ciò che non c’è più, e cioè quello che doveva essere quest’isola, attraverso i suoi monumenti religiosi.
Comincerò con le parole dello storico settecentesco Flaminio Corner, tratte dalla sua storia sulle chiese veneziane e torcellane: "...dividesi ella [l’isola di Mazzorbo] in due parti per un largo canale, che le scorre per mezzo, e separa l’isola in occidentale ed orientale, e posta nel mezzo dell’altre isole fu nei tempi remoti il luogo più ameno al respiro de’ Nobili[3] , allorché dediti erano al fruttuoso commercio marittimo[4] . Nella parte orientale dell’isola, ora pressoché disabitata, vi erano due parrocchie: la parrocchia di S. Pietro e quella di S. Bartolomeo, i cui titoli si fusero assieme in seguito alla soppressione napoleonica di quest’ultima all’inizio del XIX secolo[5] .
La parrocchiale di S. Pietro, il cui unico documento di archivio risale al 1207 (si tratta di una donazione fatta al piovano di alcune “acque” vicino alla chiesa)[6] deve ritenersi la chiesa matrice di Mazzorbo[7].
Non si ha perciò notizia precisa sulla data della sua costruzione; pare essa sia stata eretta con i materiali portati da Altino e ciò porterebbe la sua datazione al VII – VIII secolo. La tradizione, oltre a ricordare la bellezza del Tempio e le nobili colonne di marmo greco che ornavano il portico, vuole che proprio in questo Duomo predicassero S. Francesco d’Assisi e S. Antonio da Padova[8].
Delle opere di pittura si ricorda sull’altar maggiore la tavola con i santi Pietro e Paolo di Pietro Ricchi e sull’altare di S. Margherita la tavola di Francesco Ruschi con la Madonna, i santi Nicolò, S. Bartolomeo e S. Margherita[9].
Ma il pezzo artistico di maggior pregio era, senza dubbio, una pala d’argento dorato, che doveva in un primo m omento ornare l’altar maggiore[10], ed in seguito, come ci riferisce la visita pastorale del Vescovo Vianoli del 1682[11], fu trasferita ai piedi del grande crocefisso che, di fronte alla cappella maggiore, divideva con i dodici apostoli dell’Iconostasi la navata dal coro del presbiterio.
Doveva trattarsi di opera non molto dissimile da quella di Torcello[12], che ricalcava uno schema tipico di questi lavori di alta oreficeria veneziana duecentesca ispirata ad elementi iconografici bizantini[13]. Sono formelle di argento dorato, inchiodate in vari ordini su delle tavole di legno, che con elaborata tecnica a sbalzo raffigurano le immagini sacre della Madonna, dei Santi e del Cristo Salvatore[14].
La preziosità di queste immagini sacre e il grande culto di cui dovevano essere oggetto si può arguire anche dal fatto che esse venivano protette da una “contropala” lignea che veniva aperta solo nei giorni delle festività principali. Ancora oggi, ad esempio, nella chiesa di S. Salvador la pala d’argento dorata trecentesca dell’altar maggiore è custodita dietro la grande tela della “trasfigurazione” di Tiziano e bottega[15] che viene fatta scendere, per rendere visibile la pala solo nelle festività solenni[16].
Dal XV secolo iniziò per l’isola di Mazzorbo un lento declino e un progressivo abbandono da parte dei suoi abitanti e così anche il Duomo seguì le sorti della sua parrocchia divenendo povero e disadorno[17]
In conseguenza della soppressione napoleonica, la chiesa vecchia e cadente fu demolita e della sua preziosa pala d’argento come di ogni altra opera d’arte che custodiva non si ebbe più notizia. Il 5 agosto 1810 la Curia Patriarcale in occasione del riordinamento della diocesi si Venezia decretò che fossero consegnati i registri parrocchiali alla Chiesa di S. Angelo la quale diverrà sino al 1819 l’unica parrocchia di Mazzorbo.
La chiesa parrocchiale di S. Pietro di Mazzorbo fu chiusa come altre 15 chiese secolari e dell’antico Duomo non ci resta che l’appezzamento di terreno di proprietà della attuale parrocchia di S. Caterina.
Sempre nella parte “orientale” di Mazzorbo vi era un’altra antichissima parrocchia con il titolo di San Bartolomeo. Non si hanno notizie documentarie della sua edificazione, ma sappiamo dal Corner che già nel secolo XVI fu soppressa perché non più in grado di mantenersi ed il suo titolo si fuse con quello parrocchiale di S. Pietro[18]. Al suo posto, al confine con la parrocchiale, fu costruito un oratorio pubblico da un tale Marco Antonio Maimenti, e di esso si ha notizia sino al 1775 quando il Vescovo Paolo Da Ponte lo descrive come “Oratorio con Cappellano”[19].
In questo oratorio nel 1818 fu sepolto il nobile Antonio Grimani, la cui lastra tombale è ora nel pavimento dell’atrio di S. Caterina.
Lo Zanetti annota l’esistenza di una tavola con S. Bernardo di Antonio Zanchi[20].
L’oratorio fu demolito presumibilmente prima del 1830, data di un atto consuntivo conservato nell’archivio parrocchiale di Mazzorbo, in cui si registra che dai materiali della demolizione dell’oratorio di S. Bartolomeo si ricavò la somma di lire 203[21].
Questo monastero ebbe una vita sempre piuttosto travagliata; anche la sua nascita non sfugge a questa sorte, infatti il monastero originariamente sorse per opera di tre religiose che, desiderando vivere secondo la Regola di S. Benedetto, ebbero in dono nel 1218 dal Vescovo di Torcello Stefano Natali una antichissima chiesa dedicata all’apostolo evangelista S. Matteo, che era edificata nell’isola di Costanziaco.
Purtroppo la concessione pontificia arrivò dopo molti anni (1233) e dopo numerose vicissitudini, così che, nel frattempo, l’impeto minaccioso delle acque dei fiumi ruppe gli argini e l’isola di Costanziaco divenne inabitabile, anche a causa dell’insalubrità dell’aria[23].
Si procedette allora al trasferimento in un vasto luogo non abitato dell’isola di Mazzorbo, di fronte alla chiesa parrocchiale di San Pietro, dall’altra parte del canale.
Finalmente il 21 gennaio 1298 il Vescovo di Torcello Airone benedisse la prima pietra della Chiesa del Monastero e impose il
titolo dell’Apostolo Evangelista S. Matteo.
Una profonda crisi scosse la vita monastica lungo tutto il XIV secolo, al punto che nel 1341 le monache chiesero di essere rimesse nel corpo dell’Ordine e soggette alla giurisdizione e direzione dell’Abbate di Piacenza per dissidi con un loro Superiore Regolare.
Furono coinvolti persino i Patriarchi Pietro di Costantinopoli ed Egidio di Grado, in una lite che fu composta il secolo successivo per l’intervento del papa Paolo II che impose loro di sottomettersi al Patriarca di Venezia (1464).
Nel 1521, anche per correggere alcuni “…non piccioli pregiudizi a la regolar disciplina…”[24], alle 50 monache di S. Matteo furono unite le otto del vecchio monastero benedettino di santa Margherita di Torcello, essendo papa Leone X.
All’interno della chiesa conventuale si ricordano quattro tavole dell’Ingoli[25]:una con “S.Elena in ginocchio che tiene la Croce, con alcni puttini in aria”, la seconda con la “visita di S. Elisabetta”, la terza con “S.Girolamo, S. Carlo e una santa abbadessa” e la quarta con “S. Margherita con la sua decollazione in lontano”.
Sull’altar maggiore una tavola con vari santi, una monaca e tre angioletti che suonano, attribuita dal Boschini alla scuola del Vivarini, è invece attribuita dalla critica moderna a Giovanni Mansueti ed è oggi conservato nella collezione veneziana degli eredi di Italico Brass[26].
Nel monastero erano raccolte molte opere di pittura e scultura; il Delegato della Corona per la scelta degli oggetti di Belle Arti, Pietro Edwards, in occasione della soppressione napoleonica dei monasteri, elenca ben 92 dipinti e 14 sculture in terracotta ed in legno[27], di cui purtroppo non si ha più traccia.
Un ponte, vicino al monastero, collegava l’isola con quella orientale della parrocchia di S. Pietro da cui dipendeva, ponte che si nota in fondo all’incisione del canale di Mazzorbo di Tironi e Sandi.
Forse il ponte per un certo periodo sarà stato girevole come sostiene il giornalista G.A. Quarti in un suo articolo del 1941 quando scrive che il parroco, in rappresentanza degli isolani, nel 1850 chiedeva alla R. Intendenza di Finanza di Venezia di intervenire per riattivare il ponte girevole che collegava le due isole[28].
Soppresso come altri monasteri dal decreto napoleonico del 1806, verrà in seguito distrutto[29], e nel suo terreno un secolo dopo verrà scavato il canale di S. Margherita per meglio raccordare il canale di San Giacomo con quello di Mazzorbo: è il canale che si attraversa quando si entra a Mazzorbo, provenienti dalla laguna[30].
Nella parte “orientale dell’isola, all’imboccatura del canale di Mazzorbo, a destra venendo da Torcello, sorgeva l’antico monastero di S. Eufemia che possiamo vedere molto chiaramente con la sua chiesa ed il campanile nella incisione di Tironi e Sandi del XVIII secolo[31].
Le notizie che abbiamo della sua fondazione ci giungono da Bernardino Scardeonio che, nella sua storia dell’antichità padovana, ci riferisce di una nobile donna di Padova, Margherita, la quale nell’anno 900 si ritirò con tre nobili fanciulle proprio a Mazzorbo e fondò questo monastero.
Si sa ancora che ad esso fu congiunto nel 1439, dal vescovo di Torcello Filippo Paruta, il monastero di S. Angelo dell’isola di Ammiana, già abitato dalle monache dell’Ordine di San Benedetto che si ridussero al numero di tre a causa del progressivo abbandono cui degradò l’isola[32].
Con decreto del Senato della Repubblica, il 12 settembre 1768 il Monastero e la Chiesa furono soppressi e passarono ad usi militari. Nei primi anni dell’800 venne costruito un forte di cui ancora oggi si conservano le tracce.
A Burano, in via di Mazzorbo, si può vedere la vera da pozzo che era nel cortile del Monastero, su cui si legge incisa la seguente iscrizione: “IN TEMPO DELLA R.M. SUOR SCOLASTICA PISANI DIG.MA ABBAD. / PUTEUS ACQUAR VIVENTIUMQUAE / FLUUNT IMPETU DE LIBANO / MDLXXXVIII DIE X DECEM”[33].
[1] Così fu definito dall’Imperatore bizantino Costantino Porfirogenito, nel X secolo, nella sua opera “De Administrando imperio”.
[2] Infatti è molto recente l’interramento della parte sud dell’isola, dove è stato costruito il nuovo cimitero.
[3] “Il Canale di Mazzorbo hà i suoi casini
di campagna” scriveva il Coronelli nel suo Isolario del 1696 “per
divertimento, e delizia di Gentiluomini, frà quali considerabili sono quelli
del N.H. Girolamo Morosini su la punta di Santa Maria, del Procuratore Corsaro
nella parte di S. Pietro, e del Maimenti à S. Eufemia, ch’è il più bello di
ogni altro.”.
[4] F. CORNER, op. cit., pag. 589. Devo aggiungere che userò anch’io la stessa divisione in parte occidentale e orientale dell’isola, pur non condividendone l’esattezza dei termini in quanto la parte che il Corner definisce occidentale, e cioè quella –per intenderci- che è collegata da un ponte con Burano, è in realtà la parte est dell’isola e cioè quella orientale.
[5] L’unione dei due titoli ci è confermata dalla iscrizione sepolcrale in S. Maffio “Franciscus Rebelato plebanus electus cuius Eccl.ae S.mi Petri et Pauli ac Bartolomei de Majurbio hic requiescit aetatis sua LVIII – XX spt. MDCCXVII-“ tratto dal manoscritto di don Giuseppe Camozzo, parroco di Mazzorbo, che nel 1915 scrisse e intitolò: “Cenni storici frammentari sulle ultime Chiese di Mazzorbo”. In questa visita di Mazzorbo preesistente agli interventi devastanti dei primi anni dell’Ottocento, ci sarà di grande aiuto la “Venezia scomparsa” di Alvise Zorzi.
[6] F: CORNER, Ecclesiae Torcellanae …, vol. I, pag. 297.
[7] Con questo titolo di matrice viene nominata in un documento non più esistente dell’Archivio parrocchiale di Mazzorbo, redatto dalla Cancelleria Porcellana Vescovile il 17 marzo 1800, in cui si ordina alla Chiesa Matrice dei Ss. Ap. Pietro e Bartolomeo che fosse corretto un atto di nascita conservato nell’archivio.
[8] V. PIVA, Il Patriarcato di Venezia e le sue origini, Venezia 1938, vol. I, pag. 201.
[9] A.M. ZANETTI, Descrizione di tutte le pubbliche
pitture de la Città di Venezia e isole, Venezia 1733, pag. 459; M.
BOSCHINI, Le Minere della pittura, Venezia 1664, pag. 547.
[10] A.C.P. Venezia, Diocesi di Torcello, v.p. GRIMANI 1594.
[11] A.C.P. Venezia, Diocesi di Torcello, v. p. VIANOLI 1682.
[12] A. COSTADONI, Osservazioni intorno alla Chiesa Cattedrale di Torcello, Venezia 1750; A. NIERO, La pala d’argento di Torcello, in “Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, 1971, pagg. 27-44.
[13] R. POLACCO, scheda n. 37 del catalogo del Museo di Torcello, Venezia 1978, pag. 42 e segg. In essa vi si sostiene la esecuzione occidentale della pala Torcellana in base alla peculiarità paleografiche, e una datazione attorno al 1220.
[14] A. NIERO, Notizie di Archivio sulle pale di argento delle lagune venete, in “Rivista Studi Veneziani”, Venezia 1979, pag. 281.
[15] Cfr. PALLUCCHINI, Tiziano, 1969, pag. 167.
[16] A. COSTADONI, op. cit., elenca le pale disperse di S. Maria Mater Domini, quella di S. Polo dispersa a causa della soppressione napoleonica, e quelle delle chiese della laguna e cioè – oltre alla pala di S. Pietro di Mazzorbo – quella di S. Maria di Murano e quella dell’isola di Lio Maggiore.
[17] Di questa sua decadenza ci è testimone proprio il parroco R. Baldisserra FERRAZZI che nella sua relazione al Vescovo V.M. Diedo per la sua visita pastorale del 6 maggio 1736, lamentava di dover ricorrere alle funzioni di cappellano delle monache di San Maffio per poter avere un po’ di denaro in quanto le elemosine della parrocchia non gli bastavano per vivere. E ciò a prescindere dai 22 ducati all’anno che gli fruttavano le due scuole confraternite dell’altare del S. Rosario e dell’altare di Santa Margherita.
[18] F. CORNER, op. cit., pag. 589.
[19] A.C.P. Venezia, Diocesi Porcellana, v. p. DA PONTE 1775.
[20] A. ZANETTI, op. cit., pag. 459.
[21] Queste sono notizie ricavate dal manoscritto di don Giuseppe CAMOZZO.
[22] In dialetto Màffio o Mafìo.
[23] Costanziaco è una delle sei isole su cui si rifugiarono gli Altinati. Di quest’isola non resta nulla, perché fu completamente inghiottita dalle acque nel XIV secolo.
[24] F. CORNER, op. cit., pagg. 592-593.
[25] Matteo Ingoli, Ravenna 1587 – Venezia 1631.
[26] A. ZANETTI, op. cit., pag. 459. Anche il Boschini aveva attribuito questa pala dell’altar maggiore alla scuola vivariniana mentre l’Edwards, che l’aveva scelta fra molte altre, la attribuì a Giovanni Mansueti, come anche oggi viene riconosciuto dalla critica moderna (cfr. Berenson 1958, I, pag. 112 ed A. ZORZI, op.cit., pag. 430).
[27] A.S.V. Buste Edwards. Pietro Edwards, esperto in arte, a partire dal 1806 per 22 anni fu arbitro indiscusso nella scelta delle opere d’arte di pittura e scultura provenienti da chiese e conventi soppressi. Egli esaminò oltre 12000 quadri decidendo sul loro valore e sulla loro destinazione che poteva essere la raccolta riservata alla Corona dei Palazzi Reali, l’Accademia di Brera o le Gallerie dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, oppure finivano accantonate nei magazzini del Demanio e poi vendute all’asta.
Presso l’Archivio di Stato di Venezia sono conservate le testimonianze scritte di questo importante lavoro che, non dimentichiamolo, a volte servì anche a tamponare la esportazione di ingentissime quantità di opere che in alcuni casi furono svendute in blocchi di 2000 ed anche 5000 quadri. (A.ZORZI, op. cit., pag.106 e segg.).
[28] G.A. QUARTI, Mazzorbo, l’isola silenziosa, in “Le vie d’Italia”, 1941, n.5.
Nella piazza di Torcello vi è un lungo parallelepipedo di pietra, proveniente da Mazzorbo, che su una faccia porta scolpito un leone alato andante con uno stemma e sotto l’iscrizione:”Il Ser.mo Principe / fa sapere / et d’ordine dell’Ill.mi / et Eccel.mi Sig.ri Provveditori / al Comun, che cadauna / barca alberata tanto / nell’andar quanto nel / ritornar che passerà / sotto il presente ponte / pagar debba soldi quatro / e ciò in esecuzione del / decreto dell’Eccel.mo / Senato 1664.6.Settembre / e susseguente terminatio / del ponte Eccel.mo ma (…) 1664.5.ottobre / val soldi quatro. (L.CONTON, op. cit., Venezia 1927).
A proposito dei ponti in legno vedi anche G. ALBRIZZI, il “Forestiero Illuminato”, Venezia 1740, pag.391.
[29] Il governo del Regno Italico, dato l’esuberante numero di comunità religiose e la necessità di riordino di una diocesi che comprendeva parrocchie con estensioni minime in un contesto socio – economico in precipitoso decadimento, emanerà dei decreti che produssero gravi conseguenze al ricco patrimonio artistico veneziano. Il 28 luglio 1806 un decreto del Viceré Eugenio di Beauharnais figliastro di Napoleone dispose il “concentramento” di numerose comunità religiose in altre considerate “possidenti”determinando la chiusura di ben 34 monasteri (cfr. A. ZORZI, op. cit.,, pag. 70) a Venezia, a Murano, Torcello, Burano e a Mazzorbo dove non si salvarono il Monastero di San Maffio e quello di Santa Caterina. Il 23 aprile 1810 un nuovo decreto napoleonico ordinava la soppressione degli ordini religiosi che comporterà la chiusura di ben 47 conventi di cui ricordo quello antichissimo di San Giovanni Evangelista di Torcello e di S. Matteo di Murano (cfr. A. ZORZI, op. cit., pag. 74).
[30] Il canale fu aperto nel 1928, vedi al proposito il carteggio relativo conservato nell’Archivio parrocchiale, essendo parroco don Giuseppe Merli.
[31] TIRONI-SANDI, Ventiquattro Prospettive delle isole della laguna …, Venezia s.d. (sec. XVIII).
[32] F. CORNER, op. cit., pag. 595.
L’isola di Ammiana, assieme alle isole di Ammianella, Castrasia, Costanziaco ed altre che si trovavano nella parte nord della laguna, furono progressivamente abbandonate verso il XIV ed il XV secolo a causa degli sconvolgimenti ambientali generati dalle acque dei fiumi che sfociavano numerosi in aquesto settore lagunare. Queste isole furono completamente inghiottite dalle acque al punto che di esse ora non resta alcunché di visibile.
A questo proposito è molto interessante lo scritto autografo di Cristoforo Sabbadino del 16 maggio 1552 conservato presso l’A.S.V. (S.E.A., filza 124, Scritture diverse circa l’allontanar l’acque dolci dalla laguna, cc. 37 v – 38, il cui testo è integralmente trascritto nella scheda n. 142 a pag. 98 del Catalogo: Laguna, lidi, fiumi. Cinque secoli di gestione delle acque, della Mostra Documentaria 1983, realizzata a cura di M.F. TIEPOLO, direttore dell’A.S.V.).
In questo scritto l’inzegner e protho Sabbadino si
rivolge ai “carissimi signori savii ordinarii et magnifici signori esecutori
de l’offitio delle acque, che questo resto di laguna situata tra il porto di
Lio Mazzor e quello di Brontolo, risserbata per fortezza della città di
Venetia, si conservi e mantengissi nella sicurtà, longezza, larghezza e
profondità sua …” questo perché dopo la deviazione del Brenta e del
Bacchiglione si rendeva necessario farne delle altre per: “…levarsi il danno
che fano il resto degli fiumi situati oltre la Brenta verso il settentrione dal
brazo manco di questa laguna, …”.
E così prosegue: “… Il Marcenego, Dese, Zero e
Sille, i quai discendono in le aque delle contrade di Torcello, Mazzorbo e
Burano in breve tempo (egià se ne ha cortissima capara) meterano le dite
contrate in terraferma e conducano il canedo apreso li lidi delli Tre Porti, et
Venetia da tre bande serà circondata dali canedi, lontani da quella in la
mazzor lontanezza miglia cinque. Ma facendosi quanto aricordo [cioè la
deviazione nda], non le intravenirà questo cativo effetto. Gli benefitii
veramente serano innumerabili e certissimi, et in parte sono questi: la laguna
serà da un capo a l’altro tutta di acqua viva del mare, et tanta che seben li
venirà, come al porto di Malamocho,quella acqua macra e della Brenta e
qual’altra de scolatori, il dolce, superato dal salso, serà del tutto
mortificato, né oprerà il cativo efetto che egli fa superando il salso. Si
redirà Venetia, Mestre et tutte le contrate in perfettissimo aere.”.
Tra l’altro i veneziani ritenevano che fosse proprio l’incontro tra l’acqua dolce e salata l’origine dell’aria malsana e della malaria che invece si diffondeva a causa della proliferazione della zanzara malarica che trovava il suo “habitat” nei numerosi canneti lagunari.
[33] V. PIVA, op. cit., pag. 204, vol. I; per un confronto con le altre vere da pozzo vedi A. RIZZI, Vere da pozzo di Venezia, Venezia 1981, pag. 95, n. 68.