Entro due arconi che vanno ad occupare i lati dell'ottagono
della cappella, in uno spazio poco profondo, sono i due altari laterali, simmetrici ed
eguali, elegantemente inseriti in una ricca decorazione marmorea.
La calda tonalità della
pietra d'Istria fascia le due pale degli altari, in larghe cornici, arricchite
tutt'attorno da uno spesso bordo dorato di marmo giallo da Torri[1], che da risalto al biancore del marmo di Carrara
dell'icona scolpita.
Nel lento trapasso
della luce che fra le cornici gradua le morbide tonalità, la pala diviene
centro perfetto della sequenza irradiante degli archi, punto di misurato
equilibrio fra l'elegante tracciato delle linee scolpite e la luminosità
dorata e sfumata dell'insieme.
La tipologia dei due
altari è riconducibile a quella dell'altare "a
portale"[2], dove è diminuita l'importanza del tabernacolo
a tutto vantaggio della pala scolpita[3].
La pala marmorea, per
la mutevolezza delle immagini che si ricreano al variare della luce e del
punto di vista dell'osservatore, rappresenta l'espressione più elevata, poiché
unisce alle qualità tridimensionali della materia lavorata, anche la peculiarità
della pala pittorica, quella del racconto, dell'episodio narrato che qui, in
questa cappella, è inserito in un preciso tracciato simbolico. E' singolare,
in-fatti, come a Passariano, sia assente l'opera pittorica, specie negli altari,
posto solitamente a lei deputato.
Questi due altari sono
uno splendido esempio del gusto raffinato e prezioso dell'arte all'inizio del
secolo dei lumi, quando si coniuga, con apparente contraddittorietà,
l'illusione di riprodurre il reale con l'esaltazione della materia trattata,
che da mezzo diviene fine.
La materia, in quest'illusione di
trattare direttamente con il reale, ahimè riprodotto nell'ambigua tangibilità di
un corpo scolpito nel marmo, modellato nello stucco, o contornato dal finto
realismo di un drappo marmoreo, la materia, appunto, diviene protagonista,
esaltata come simbolo del gusto del tempo, per il piacere di un contatto
emotivo più tangibile, diretto: è lei il soggetto dell'opera, l'oggetto della
creazione artistica.
Il marmo rosso da
Verona della predella e degli scalini della mensa delimitano la parte
inferiore degli altari. In alto, una serie di archi a tutto sesto, si
moltiplicano dalla pala sino al grande arcone della parete dell'aula,
interrotti soltanto dal controluce di una lunetta aperta sull'esterno.
Una schiera di putti e
cherubini sostengono all'intorno un prezioso drappo dello stesso marmo giallo
oro da Torri.
Quando il Torretti eseguirà
tra il 1729 ed il 1732 i quattro pannelli marmorei per la Cappella Manin di
Udine[4], egli avrà presente sopratutto la pala del Miracolo della mula, per i richiami allo
sfondo prospettico delle architetture ed i personaggi al balcone.
Numerosi sono i documenti autografi del
Torretti relativi a questi due altari (App. doc. III, IV, V, VI e XII) a
partire dal 1720 sino al saldo avvenuto nell'agosto del 1722 (c. 92v) e le
registrazioni concernenti i due rilievi marmorei annotate nel "Giornale delle spese" c. 102v e c.
106v, dal 1723 al saldo del 1724, ove è menzionato, per la famiglia Manin, il
conte Nicolò.
La scena descritta nel gran rilievo dell'altare
laterale destro è il noto "Miracolo
della mula di S. Antonio da Padova"[5].
E'
il racconto della conversione di un ebreo che dubita della presenza reale del
Cristo nell'Eucaristia, così che il Santo per convincerlo fa inginocchiare davanti
all'Ostia consacrata una mula, la quale rinuncia ad una razione d'avena che in
abbondanza le era offerta e preferisce genuflettersi.
Si tratta di una scena
intonata all'esaltazione dell'Eucaristia, tema importante nell'iconografia
sacra settecentesca, e che in questo miracolo abbina la conversione di un non credente con il culto di Sant'Antonio
da Padova[6], santo francescano caro alla devozione dei Manin.
Il Torretti espone con
esemplare chiarezza l'episodio: sulla destra, un gruppo di mercanti,
preoccupati nelle certezze delle loro cose, ciarlieri ed intriganti, sono puntualmente
descritti nel fitto intreccio
degli sguardi, nella ricchezza delle loro vesti, ammassati uno su l'altro,
ritratti nella varietà delle espressioni dei loro volti.
Alcune donne, più in
basso, unite da un medesimo sentimento di preghiera, indistintamente e
brevemente delineate, fanno da silente contrappunto al volume rumoroso dei
mercanti. La scena si scioglie verso sinistra, in uno spazio vuoto davanti
alla mula, punto sacrale della rappresentazione su cui si eleva la figura del
Santo, con il Calice e l'Ostia.
Le ampie superfici
delle case sullo sfondo, incorniciate da nette linee prospettiche creano profondità
e spazio all'insieme, e non sfugge la ricercatezza dei piccoli dettagli:
quel cane in basso, o i tre gabbiani in volo nello stretto squarcio di cielo,
in alto.
Le dimensioni raccolte
della pala, costretta fra la ricca cornice marmorea, al centro dei fastosi
ornamenti dell'altare e dell'ampio arcone della cappella laterale,
catturano l'attenzione degli astanti sul biancore omogeneo dell'icona. Ma al
primo approccio l'eloquenza descrittiva dell'episodio antoniano subito non
appare, è richiesta una minima attenzione per isolare la pala dal contesto,
così che essa si mostri in tutta la sua efficacia narrativa.
In questa pala,
infatti, il Torretti, facendo un uso più modesto della monumentalità
e delle preziosità scenografiche delle pale marmoree della Cappella Manin di
Udine[7], esprime al più alto livello le sue capacità
di narratore, sfruttando appieno le possibilità espressive che la tecnica del rilievo
gli offre: un'ampia gamma luministica, intensa e plastica nel tutto tondo del gruppo dei mercanti
sulla destra; un'impronta lieve, appena accennata, nel rilievo delle pie donne e nelle larghe superfici delle
quinte architettoniche dello sfondo.
Tecnica di cui si serve
per animare il racconto e rendere più facile il contatto, il collegamento fra
lo spettatore e l'opera. In questo dissentendo dall'opinione della Frank, che
al contrario nega per questa come per le altre pale torrettiane di Passariano,
qualsiasi "coinvolgimento diretto dello spettatore", cioè
l'assenza di "continuità tra esterno ed interno", un "congelamento
di tutti gli elementi narrativi"[8].
Una luce omogenea
riflessa dal fondo piatto, avvolge delicatamente l'equilibrata composizione
disposta senza scarti, e vivifica la rilassatezza dei volti e dei gesti,
creando una quieta atmosfera di preghiera e di attesa.
San Giuseppe è disteso
nel suo letto, mentre ai lati la Madonna e Gesù lo assistono assieme a quattro
angeli. Nella parte alta della pala, un volo di angeli e cherubini attende il trapasso fra piane e
rade nuvole.
Uno degli angeli in
volo reca in mano un fascio di gigli, simbolo del suo matrimonio verginale[9].
L'iconografia del Santo
è tardiva[10], e la sua popolarità ebbe origine sopratutto
per merito di Santa Teresa d'Avila, riformatrice dell'Ordine del Carmelo, e di
Sant'Ignazio di Loyola, fondatore dell'Ordine dei Gesuiti.
Sono riferimenti non
casuali qui a Passariano, che legano i Manin ai Carmelitani, vedi l'acquisto
della cappella dedicata alla Sacra Famiglia
nella chiesa di S. Maria di Nazareth dei padri Carmelitani Scalzi a Venezia da
parte del conte Antonio Manin[11], ed alla Compagnia di Gesù che in quegli anni
essi finanziavano con dovizia di mezzi e denari per la ristrutturazione della
chiesa di Santa Maria Assunta ai Gesuiti a Venezia[12].
Sono i Gesuiti a formulare
per la devozione a San Giuseppe questa sorta di nuova Trinità: Gesù, Giuseppe e Maria, chiamata appunto la Trinità Gesuitica[13]. La cappella ove sarà sepolto l'ultimo doge di
Venezia, nella chiesa dei Carmelitani Scalzi, è dedicata a Gesù, Giuseppe e
Maria[14], così che la figura del santo, che per molti
secoli era rimasto nell'ombra, acquista gli onori degli altari assieme a Gesù
e Maria, e sarà quasi esclusivamente rappresentato nel momento della sua
morte[15]. Singolare questo fatto se si consideri che San Giuseppe è praticamente dimenticato dalle
Scritture e nulla si sa della sua morte[16].
Il Torretti rende
pienamente questa atmosfera di serenità e semplicità attraverso una scarna
ed essenziale ripartizione spaziale, levigando e riducendo ogni asperità
plastica che consente alla luce di scorrere lieve sui corpi ed amalgamare e
ridurre ad un unico e corale afflato l'istante atteso della morte.
La pala in bassorilievo
di San Giuseppe fu eseguita contemporaneamente a quella dell'altro altare
di Sant'Antonio nel 1724.
Elegante il piccolo
tabernacolo in marmo, poggiato sulla mensa dell'altare, con la bella portella
lavorata a sbalzo nel tema eucaristico del Cristo morto sorretto dagli angeli.
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[1] Giallo Torri del Benaco, chiamato zallo da Torre nelle note di spesa firmate dal Torretti (Appendice, doc. III).
[2] Tipologia piuttosto diffusa in Friuli degli altari così chiamati per essere "destinati ad accogliere entro il fornice una icona scolpita o dipinta.", cfr. P. GOI, Il Seicento e il Settecento &., cit., p. 193; da ricordare alcuni esempi, oltre a questi di Passariano, quelli di Spilimbergo , di Aviano e di Pontebba.
[3] Un genere, questo delle pale marmoree, che, come si è scritto nell'introduzione, recupera un'antica tradizione veneziana risalente a Tullio Lombardo, ma che trovò discreta fortuna in tutta Italia nel Seicento e nel Settecento per merito del bolognese Alessandro Algardi (Bologna 1595 - Roma 1654), nell'intento di riaffermare la specificità dell'arte sculturea.
[4] P. GOI, Giuseppe Torretti nella &, cit., pp. 29-40.
[5] P. GOI, Il Seicento e il Settecento &, cit., p.208.
[6] In realtà il Santo è nato in Portogallo, a Lisbona, nel 1195, prende gli Ordini dei Frati Minori di San Francesco, si vota alla predicazione, e arriva a Padova soltanto poco prima di morire, a 36 anni, nel 1231, cfr. L. RÉAU, Iconographie de l'Art &, cit., III, 1, pp. 115-122. La sua festa si celebra il 14 di giugno.
[7] Si vedano le alte volte delle architetture della "Presentazione al Tempio" cfr.: C. SEMENZATO, La scultura del ..., cit., p. 39; P. GOI, Giuseppe Torretti nel &., cit., pp. 9-63.
[8] Ciò che la Frank chiama "proprietà di un Andachtsbild"; cfr. M. FRANK, Virtù e Fortuna ..., cit., p.134. Il Goi a questo proposito: "[per le cappelle Manin di Passariano e Udine] & i cui rilievi sono intimamente connessi al partito architettonico quanto a scansione, punti di veduta-fuga e di lettura-significato sicché solo impropriamente si può parlare di Andachtsbild (mi riferisco alla sacrestia di Passariano &) dal momento che gli episodi plastico-pittorici del vano ( &) sono dati in motivata sequenza e proprio le prospettive - altrimenti definite "laiche" - valgono a focalizzare i fatti illustranti la dottrina della Redenzione e della Mediazione di Maria; aspetto dottrinale affatto prioritario rispetto agli artifici prospettici che rimangono in posizione subordinata e marginale senza interessare la narrazione." P. GOI, Scultura del Settecento &, cit., p.92.
[9] Il fascetto di gigli originariamente era il "bastone fiorito" che alludeva, come narra la leggenda, al miracolo grazie al quale, nonostante la sua età avanzata, San Giuseppe riuscì a vincere sui più giovani pretendenti alla mano di Maria, (RÉAU, , Iconographie de l'Art &, cit., III, 2, pp. 752-760).
[10] La sua popolarità crescerà solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563), fino a divenire nel XVII sec. uno dei santi più venerati, ed essere proclamato nel 1870 patrono della Chiesa Universale. Nel 1621 papa Gregorio XV stabilirà che la festa di San Giuseppe sarà celebrata il 19 di marzo.
[11] Che doveva servire per la sepoltura di famiglia. Dove, infatti, sarà sepolto l'ultimo doge Lodovico Manin, cfr. M. FRANK, Virtù e Fortuna &, cit., p. 94.
[12] Edificata tra il 1715 ed il 1729 al posto della più antica chiesa di S. Maria dei Crociferi, vedi R. BOSEL, La Chiesa dei Gesuiti a Venezia, Un'ipotesi di interpretazione tipologica, a cura di M. ZANARDI, atti del convegno (Venezia 1990), Padova 1994.
[13] RÉAU, Iconographie de l'Art &,
cit., p. 755.
[14] Con le statue della Madonna del Carmelo, il Bambino Gesù e S. Giuseppe.
[15] L'episodio del transito di San Giuseppe è un'ideazione apocrifa del domenicano Isolano che nel 1522 scrisse una "Summa dei doni di San Giuseppe" ed al quale attribuì i "sette doni dello Spirito Santo" (RÉAU, Iconographie de l'Art &, cit., p. 755).
[16] Bisogna in ogni caso aggiungere che quest'iconografia lo fa divenire anche il patrono della buona morte, invocata dai moribondi, per l'esempio di assistenza della Madonna e di Gesù al padre putativo, cui invia gli arcangeli Michele e Gabriele per accogliere ed accompagnare in paradiso la sua anima.