Sul letto di morte, il doge Paolo Renier considerando i probabili candidati a succedergli, così sentenziava: "Ve lo dirò mi chi i farà. L'erario xe in sconquasso, ocore un ricon, e i farà Lodovico Manin"[1]. E così fu anche se egli si adopererà per rifuggire da questa suprema carica, come si legge nelle sue "Memorie del Dogado"[2]: «... si crede di dover accennare alcuna cosa riguardante la mia particolare persona. Io avevo sentito dire delle voci nel non breve tempo che passò tra la morte del Doge Renier e la sostituzione, che mi nominava; a questo io avevo una alienazione decisa, e la moglie che nutriva li stessi sentimenti, voleva che mi difendessi. Venuto il momento e vedendomi scelto dal Quarantuno si accrebbero di molto le mie ansie.»
«Io allora, perduto ogni riguardo, mi presentai a tutti del Quarantuno, facendo tutti gli sforzi con le lagrime agli occhi; ma la cosa era decisa, né vi era più rimedio. Seguì dunque l elezione, ed io n ebbi una tale angustia che appena sapevo cosa mi facessi. Scrissi un biglietto bagnato tutto di lagrime al fratello Piero col quale gl'indicavo d'ordinare l'occorrente sul metodo tenuto dal doge Mocenigo. La mia alienazione per questa onorifica Dignità andò sempre più accrescendo quasi presagendo il di lei funesto termine[3].».
Il Lunedì 9 marzo 1789, Lodovico Manin fu comunque eletto con 28 voti su 41, e Venezia, ormai prossima alla fine, spese per la elezione oltre 369 mila ducati, più di quanto si fosse mai speso in passato. I festeggiamenti per solennizzare la esaltazione al trono dogale, che erano a carico del doge stesso, raggiunsero la notevole cifra di 458 mila ducati, di cui oltre 5 mila in monete d'oro e d'argento di nuovo conio lanciate dal pozzetto[4] durante il giro trionfale in piazza S. Marco.
Anche Lodovico Manin, come era consuetudine dal 1521 per i dogi, fece coniare delle oselle, le medaglie commemorative di fatti importanti del proprio dogado. Nel giugno 1796 fu coniata l'ottava osella del doge Manin, l'ultima della Repubblica con il motto: MATRI AMANTI AMANTES FILII[5]. Motto emblematico della difficile situazione politica in cui versava la Repubblica, una debole invocazione al recupero delle forze ed all'unità dei suoi cittadini per opporsi alla fine ormai prossima ed ineluttabile.
E ce n'era davvero bisogno di forza per opporsi, dalla paralizzante posizione di neutralità armata in cui Venezia si era arroccata, all'invasione del territorio veneto che in quell'anno veniva occupato dalle truppe francesi da Bergamo, Brescia fino a Verona e da quelle austriache dal Friuli e Cadore fino a Vicenza[6].
Napoleone puntava ai territori della Repubblica ed il 9 aprile 1797 inviava una lettera di minacce di intervento al Doge Manin, a cui il Senato risponde arrendevolmente.
Il 18 aprile 1797, a Leoben, Napoleone concorda con l'Austria l'acquisizione del Belgio, Lombardia e Mantova in cambio del territorio della Repubblica Veneta, tranne Venezia, che sarebbe rimasto un moncone isolato privo di vita.
Nella illusione di salvare la Repubblica con una impossibile neutralità, attraverso timide ed inutili mediazioni, il Senato, il Consiglio dei Dieci, gli Inquisitori di Stato, La Quarantia, in sostanza chi deteneva il potere effettivo del governo dello stato, dopo l'avvertimento bonapartiano, spariscono in vergognoso silenzio, lasciando nella persona del doge, assistito dai suoi consiglieri, la Consulta, e nel Maggior Consiglio, organo sovrano assopito da molti anni, l'ingrato compito di sancire in lento suicidio la fine del regime aristocratico e della nazione[7].
Il 30 aprile 1797 il doge Manin riunisce nel suo appartamento una prima commissione[8]
e decide la convocazione del Maggior Consiglio per il 1 maggio dove prenderà
così la parola: «Le angustie estreme nelle quali versa
l animo nostro, oltre che la grave età e la debolezza della nostra salute, fa
che noi siemo sicuri d aver forza de far breve allocuzion ai nostri amatissimi
concittadini; (...) dopo depredadi tutti
li territorj, smunto el dinaro da tutte le casse pubbliche, in adesso i
Francesi s'ha impossessà de tutto el Stato; i ha fatto rivoluzionar tute le
più ricche provincie, cosicché i xe al margine delle Lagune. (...) così in
questa notte stessa avemo unita una straordinaria Conferenza, e frutto di
lunghissimi studj e meditation la Parte che in adesso sentirà. Questa xe stata
estorta dalla imperiosa necessità delle circostanze, mentre tanto el
Proveditor alle Lagune e Lidi, quanto el Luogotenente Straordinario confessan
che non semo in grado di poter far resistenza a tanta forza. (...) Questa
Parte, che come avemo detto xe estorta dalla durezza delle circostanze, la
tende a salvar questa Città, le nostre persone, le nostre famiglie, i nostri
altari, la nostra popolacion che xe minacciadi de morte e saccheggi. (...) La
Parte xe proposta col Nostro nome, perché le leggi ha dà facoltà a Nu soli de
poter far proposizion, senza li metodi stabilidi molto prudentemente per tutti
li altri casi (...) le esortemo, abbandonando qualunque vista privata, ad
unirse con voto concorde, mentre questo è il solo mezzo de salvar medesimi e la cara Patria»[9].
La parte conferiva al doge il compito di negoziare, attraverso il Luogotenente della difesa lagunare, una sospensione delle ostilità con il comandante delle truppe di terraferma francesi. Inoltre autorizzava Francesco Donà e Leonardo Giustinian a trattare con il generale Bonaparte sulle modificazioni da apportare nella forma del Governo veneziano. La parte fu votata con 598 sì, 7 no, e 14 incerti.
Con altri ricatti e pesantissime minacce francesi, nella grande confusione del governo veneziano senza più Senato, e senza neppure il Tribunale degli Inquisitori fatti arrestare dal Maggior Consiglio su minaccia napoleonica, si arriva al 12 maggio 1797.
Comunque, l'8 maggio il doge Lodovico Manin, nella speranza che qualcuno potesse far meglio di lui offre alla Consulta le sue dimissioni, ma lo pregarono di restare. Il 9 maggio 1797 risponde ai francesi che volevano imporgli la Presidenza della futura Municipalità Provvisoria di Venezia: «... che essi erano padroni della sua vita, ma che della sua Religione e del suo Onore ne era padrone solo Iddio.».
Il 12 maggio 1797 si riunisce per l'ultima volta il Maggior Consiglio con soli 537 patrizi su 1218, il doge espone le ragioni che consigliano di accogliere le imposizioni napoleoniche sul cambiamento della Costituzione, e con 512 sì, 20 no e 5 astenuti, il Maggior Consiglio, prima ancora di conoscere il risultato dei negoziati dei suoi Rappresentanti presso il generale Napoleone Bonaparte, approva la fine della Repubblica di Venezia.
Nonostante i tumulti ed il reale pericolo per la sua vita, soltanto la sera del 15 maggio il doge Lodovico Manin, accompagnato dai nipoti, figli del fratello Giovanni, abbandona il Palazzo Ducale per recarsi a Ca' Pesaro, mentre le truppe francesi a colpi di cannone annunciano il loro ingresso in laguna.
Il 16 maggio a Milano, i Francesi sottoscrivevano un accordo con i delegati del vecchio regine, Francesco Donà, Leonardo Giustinian e Luigi Mocenigo con il quale si impegnavano a lasciare la città lagunare una volta instaurato il nuovo governo.
Il 4 giugno in piazza san Marco veniva piantato l'albero della libertà e bruciato il Libro d'oro del patriziato veneziano assieme alle insegne dogali che Lodovico Manin fu costretto a consegnare a partire dal corno, il berretto dorato simbolo del suo rango principesco per secoli indossato dai suoi predecessori[10].
In realtà le intenzioni dei vincitori erano diverse da quelle lasciate intendere ai Veneziani, infatti gli accordi preliminari di Leoben del 18 aprile 1797 fra Napoleone e gli Austriaci si trasformarono nel famoso Trattato di Campoformido[11] del 17 ottobre 1797, firmato proprio in questa villa del doge Manin a Passariano, dove si era insediato Napoleone.
Con questo trattato il territorio della Repubblica Veneta a sinistra dell'Adige, compresa Venezia, l'Istria e la Dalmazia passavano sotto la dominazione austriaca.
Venezia, saccheggiata, privata dei cavalli di san Marco, spogliata di moltissime opere d'arte, il 18 gennaio 1798 veniva lasciata dal generale francese Serrurier per essere consegnata agli austriaci, che le tolsero definitivamente della libertà di cui, unica, aveva goduto per più di undici secoli.
Lodovico Manin fu ingiustamente ritenuto il principale responsabile di questa fine, in realtà essa non fu che la conseguenza di un lungo declino avviato già da molto tempo e che la forza dell'esercito francese spezzò irrimediabilmente.
Gli va riconosciuto, invece, il merito di aver assunto fino in fondo le responsabilità dell'alta carica dogale, con dignità ed equilibrio, quel tanto - se non altro - che consentì di risparmiare la città lagunare ed i suoi cittadini dalle cannonate francesi. Va perciò condiviso il giudizio del Da Mosto, quando scrive che: «Fu indubbiamente un onest uomo, che non accettò di trescare con gli invasori e rifiutò, benchè minacciato, di diventare capo della Municipalità Provvisoria[12].».
Ritiratosi a vita privata morì il 24 ottobre 1802, a 76 anni, e venne sepolto nella chiesa di santa Maria di Nazareth degli Scalzi a Venezia, come aveva disposto nel suo testamento.
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[1] C. RENDINA, I dogi, storia e segreti, Roma 1984, p. 455.
[2] L. MANIN, Memorie del Dogado, a cura di A. Sarfatti, Venezia 1886, pp. 3-4.
[3] A. D'ALIA F. TOMASINI, Ludovico Manin &, cit., pp. 166-167. I Quarantuno riuniti in conclave in Palazzo Ducale, ed usciti da una lunga e laboriosa serie di sorteggi ed elezioni fra i membri del Maggior Consiglio, secondo una prassi che risaliva al 1268 in occasione della elezione del doge Lorenzo Tiepolo, erano gli elettori finali del doge. Trenta elegge il conseglio; / Di quei, nove hanno il meglio. / Questi eleggon quaranta, / Ma chi di lor si vanta / Son dodici, che fanno / Venticinque. Ma stanno / Di questi solo nove, / Che fan con le lor prove / Quarantacinque a ponto, / De' quali undici in conto / Eleggon quarantuno, / Che chiusi tutti in uno / Con venticinque almeno / Voti, fanno il sereno / Principe, che corregge / Statuti, ordini e legge.", spiega una canzone popolare; cfr. U. TUCCI, I meccanismi dell'elezione dogale, in I Dogi a cura di G. BENZONI, Milano 1982, p. 111. A proposito della dogaressa Elisabetta Grimani, essa morì nel 1792 a tre anni dall'elezione.
[4] La cerimonia dell'incoronazione del doge, ad imitazione dei papi e degli antichi imperatori, prevedeva il suo trionfo su di uno speciale pozzetto che gli operai dell'Arsenale sostenendo sulle spalle, trasportavano attraverso la piazza S. Marco gremita di folla.
[5] G. WERDNIG, Le oselle, monete - medaglie della Repubblica di Venezia, Padova 1983, pp. 229-233. Vi sono raffigurate le otto oselle fatte coniare durante il dogado di Lodovico Manin. L'ultima osella nel recto mostra, a sinistra, un cittadino in ginocchio che offre delle monete alla Repubblica di Venezia stante davanti a lui, a destra, al centro MATRI AMANTI AMANTES FILII - nell'esergo F B. Nel verso: LUDOVICI MANIN PRINCIPIS MUNUS AN. VIII 1796; A. JESURUM, Cronistoria delle "Oselle" di Venezia, Venezia 1912, p. 322; L. MANIN, Illustrazione delle medaglie dei dogi di Venezia denominate oselle, Venezia 1847, pp.110-114, Tav. VII.
[6] R. CESSI, Storia della Repubblica di Venezia, Firenze 1981, p. 742; L. MANIN, Memorie &, cit., p. 13.
[7] R. CESSI, Storia &, cit., p. 758.
[8] I 6 Consiglieri del doge, 3 Capi della Quarantia criminale, 6 Savi del Collegio grandi, 5 Savi di Terraferma, 5 Savi agli Ordini, 10 Savi del Collegio usciti, 3 Capi del Consiglio dei Dieci, 3 Avogadori de Comun. Cfr. MASSIRONI, L'ultimo &, cit., p. 141.
[9] Così veniva chiamata la proposta da discutere e mettere ai voti. A. D'ALIA, Ludovico Manin &, cit., pp. 144-146.
[10] Cfr. Gazzetta urbana veneta n. 45 del 7 giugno 1797.
[11] Si preferì dare questo nome al trattato essendo la località di Campoformido a metà strada fra le due armate.
[12] A. DA MOSTO, I dogi di Venezia &, cit., p. 539.