I due armadi della sacrestia

 

Davvero originale ed interessante questa coppia di armadi della sacrestia creati e dipinti da Francesco Fontebasso[1] nel 1732,  "per custo­dir l'argenteria e paramenti"[2].

Alti sino al soffitto, gli armadi sono collocati ai lati dell'altare del Cro­cefisso, secondo le attente disposizioni della regia iconografica che tiene anche conto della fonte di luce proveniente dalle due fine­stre del portico della villa.

Ciò che rende insolita questa struttura è che i due grandi armadi sono appesi alla parete e toccano terra soltanto con il piede di una mensola molto svasata, una ridotta superficie di appoggio, sì da in­durre la sensa­zione, un po' strana per così grandi volumi, che gli ar­madi siano sempli­cemente sospesi.

Nella parte alta due volute scanalate si uniscono in un grande lobo e fan da corona alle scene del peccato originale dipinte in mono­cromo a cirage sulla tela che ricopre le portelle degli armadi[3].

Anche se realizzati qualche anno più tardi degli altari della sacre­stia, e forse in origine non previsti, si inseriscono perfettamente nel percorso iconografico ideato per questo ambiente[4], amplificando nelle note scure della tentazione, il tema della colpa dei nostri proge­nitori, che il solo sa­crificio divino  potrà riscattare; non a caso, infatti, gli armadi sono collocati ai lati del bianco altare della Crocefis­sione.

Il disegno in entrambe le tele è costruito con gli stessi elementi di impa­ginazione compositiva: i personaggi sono ai piedi di un grande albero carico di mele, dalla folta chioma, tutto coperto da un'archi­tettura a volta, soste­nuta da otto colonne corinzie abbinate.

Nel primo armadio, entrando, si vede Eva seduta su una roccia, di schie­na, mentre porge la mela ad Adamo. Il diavolo nascosto osserva la scena, dietro nell'ombra si scorgono alcuni animali del paradiso terrestre.

Nel secondo armadio, il diavolo con la lunga coda da serpente ar­rotolata sul tronco del melo, blandisce Eva che cederà alla tentazione e gusterà la mela proibita. Adamo si scorge appena, seduto nell'om­bra con alcuni animali[5].

La disposizione delle finestre rispetto agli armadi, cioè la que­stione della fonte di luce ha per gli artisti di questo periodo un note­vole valore, come abbiamo visto per l'altare della Madonna del Car­melo e quelli laterali in chiesa. La fonte di luce costituisce un ele­mento integrante dell'opera d'arte nella realizzazione dell'apparato ar­chitettonico, sia per il suo si­gnificato simbolico spirituale, sia per l'in­sito valore estetico di schiari­mento tonale che riflette il gusto del tempo.

Per questi monocromi è ancora la luce la protagonista della com­posi­zione, l'anima possente che modella il morbido incarnato dei per­sonaggi, che dà vigore e vibrazioni luministiche alle forti e ricche chiome ed al ro­busto tronco della pianta: è la luce, nelle argentee tra­sparenze dei bian­chi, accesi per contrasto dalle dense pennellate scure, il centro di inte­resse dell'artista, più che lo statico equilibrio della cornice architettoni­ca.

In questi due originali dipinti, commissionati dai Manin al Fonte­basso appena ventiquattrenne, ed all'inizio della sua carriera artistica, non può sfuggire alla lezione di Sebastiano Ricci, ma è forse ancora più evidente quella dei paesaggi e delle tensioni luministiche delle acqueforti di Marco Ricci[6], soprattutto per la resa vigorosa delle piante e per la at­tenta ricerca chiaroscurale.


 


Il Fontebasso, con questa prima commissione, riesce ad entrare in quella cerchia di artisti come l'architetto Domenico Rossi, lo scultore Giuseppe Torretti, lo stuccatore Abbondio Stazio, il pittore francese Ludovico Do­rigny, che spesso si trovano a lavorare per uno stesso committente, come in questa villa di Passariano, o nel Duomo di Udine, nella chiesa dei Ge­suiti a Venezia, e di cui i nobili Manin si servono  per la realizzazione e decorazione delle opere che in numero cospicuo vanno edificando per la celebrazione del potere e dei fasti  della propria famiglia.

Al Fontebasso saranno commissionati dai Manin due affreschi per il soffitto dell'aula della chiesa dei Gesuiti, e pochi mesi prima della morte, dal nobile Alvise Manin (1769), due tele per la chiesa dei Fi­lippini di Chioggia, che saranno i suoi due ultimi lavori.

 


 


Singolare circostanza, nota la Magrini, che proprio i Manin aprano e conclu­dano le commis­sioni di questo artista.

Il ritratto di Francesco Manin, vescovo di Emonia

Fra i due altari prospettici vi è il ritratto su tela di Francesco Ma­nin[7], ve­scovo di Emonia, poi chiamata Cittanova d'Istria[8]. L'alto pre­lato seduto guarda fisso in avanti e tiene nella mano destra una lettera datata 1616. La sua veste bianca si staglia fra il rosso della poltrona e i lembi di un drappo che la incornicia ai lati.


 

 


Lo stemma dei Manin è dipinto sopra l'iscrizione che esplicita l'i­dentità del personaggio ritratto e l'anno di esecuzione: FRANCISCUS MANIN­VS / ANTONII FILIVS / EPISCOPVS EMONIAE / AETATIS SUAE / ANORVM LXXV / MDCXVI[9].  Pur nella forte espressività del volto che probabilmente coglie con fedeltà i tratti fi­sionomici del vescovo, le quali­tà stilistiche del dipinto non paiono molto elevate e non è facile ipotizzarne l'autore.

Interessante la cornice eseguita  per questo ritratto, come fa pensare la presenza dello stemma, ed intagliata nello stile chiamato "sansovino"[10], con le caratteristiche dorature che eviden­ziano le nervature delle foglie di loto e la decorazione a ventaglio.

In alto al posto del fiore centrale è intagliato in grande evidenza lo scudo nobiliare Manin.

 

 


 


L'acquasantiera

Nel corridoio, alla sinistra della cappella maggiore, che porta dal­l'aula alla sacrestia, è collocata una imponente acquasantiera, arric­chita di pro­fonde e numerose modanature.

La sua imponenza non aiuta comunque a nascondere una certa impres­sione di durezza nell'esecuzione che subito si avverte: il fondo troppo appiattito del catino sembra incastrato su di un fusto poli­morfo, quale pesante risultato di una quasi casuale sovrapposi­zione di moduli, una larga base quadrata, un tamburo scanalato, un dado ed infine un ci­lindro rudentato su cui poggia l'ampio catino.

L'opera manca di quella unitaria ed ar­monica linea d'insieme che si può ammirare in numerosi lavori di questo genere, siano essi ac­quasantiere che fonti battesimali, fra loro molto vicine nel disegno, e che in di­screto numero sono ancora presenti nelle chiese del Friuli.

Sono i lapicidi lombardi giunti in queste terre negli ultimi decenni del XV secolo ed in seguito i loro imitatori locali, i realizzatori di queste eleganti e caratteristiche opere scultoree fra le quali ricordo l'acquasan­tiera del duomo di Udine (1497) di Bernardino da Bis­sone[11], quella ele­gantissima della parrocchiale di Pagnacco dell'ini­zio del secolo XVI dello stesso artista, mentre appartengo al lapicida Gio­vanni Antonio Pila­corte[12] il fonte battesimale del duomo di Spilim­bergo (1492-93) e quello della chiesa di S. Pietro di Travesio (1490 c.)[13].

Questi due maestri lombardi, fra le personalità più interessanti de­gli scultori rinascimentali in Friuli[14], crearono una tipologia con moda­nature e soluzioni decorative caratteristiche, che incontrarono il favore della committenza, e verranno molto imitate dai lapicidi lo­cali.

Quasi tutte le fonti hanno, ad esempio, dei putti scolpiti attorno al fusto, mentre il catino è decorato con fregi a racemi ed ampie moda­nature di astragali ed ovuli, in un insieme che richiama la linea di un grosso calice.

Una prima distinzione fra opere molto simili tra loro potrà avve­nire, dun­que, badando alla qualità che spesso si identifica con l'ese­cuzione di un lapicida lombardo. Nel nostro caso, per questa acqua­santiera[15], ritengo si debba cercare fra gli artisti minori, e ce ne sono molti non ancora studia­ti, che potrebbero averla scolpita.

Forse si potrebbe azzardare il nome di Battista di Giovanni Ber­gamasco, chiamato anche Battista di Fanna o Battista di Meduno, la­picida friula­no[16], per l'accostamento che è possibile fare con il fonte battesimale che questo artista realizzò nella chiesa parrocchiale di Barbeano nel 1537.

Lavabo XVI-XVII sec.,

sacrestia

Ci sono, infatti, ben sei elementi delle modanature e della decora­zione che vengono usati in en­trambi i manufatti: lo stesso giro di ovuli lungo il bordo, le scanalatu­re rudentate, gli astragali, ed i gonfi petali stilizzati che chiu­dono il fondo del catino. Nel quadrato della base, una identica ed insolita decorazione a grosse maglie di catena che corre all'in­torno[17], ed infine una stella a sei punte che è scol­pita in entrambe le opere.

Una certa grosso­lanità nell'esecu­zione accomuna le due opere, ma questa resta pur sempre una indi­cazione, che comun­que colloca l'o­pera al­l'interno di un preciso contesto artistico e indica come proba­bile data di esecuzione i primi decenni del XVI secolo, cioè qualche tempo dopo gli esempi più illustri dei lapicidi lombardi.

A quel periodo si può far risalire anche il lavabo che si vede, fisso alla parete ovest della sacrestia, un po' nascosto dal grande armadio del Fonte­basso. Non sono molti gli esempi in Friuli di questo genere di ma­nufatti, anche se gli stilemi ornamentali ri­prendono elementi piuttosto diffusi in quel pe­riodo.


Le testine dei che­rubini che qui si ripetono sei volte sono presso­ché identiche a quella, ad esempio, che è scolpita nella colonnetta reggi Crocefisso della parroc­chiale di Travesio[18]. Molto semplice la struttura dell'insieme che mostra soltanto al centro, nel catino che contiene l'acqua, un disegno curvilineo di rami e foglie. In alto, lo scudo nobiliare dei Manin, non ancora inquar­tato, conclude il bell'e­sempio di scultura lapidea rinascimentale, attri­buibile a maestranze friulane.

 A completare l'arredo della sacrestia vi sono agli angoli quattro tele in cornici riccamente intarsiate con Sant'Antonio, S. Nicola di Bari, un Santo vesco vo domenicano ed un Santo francescano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Francesco Fontebasso nasce nel 1707 nella parrocchia di S. Moisè a Venezia e muore nel 1769, sempre a Venezia. Si veda la monografia dell'artista: M. MAGRINI, Francesco Fontebasso (1707 - 1769),  Vicenza 1989.

[2] Come si legge nel "Giornale delle spese ..." c. 173v, pubblicato anche dalla Ma­grini, (Appendice documentaria c. 173v).

[3] Le tele misurano 300 cm. in altezza e 225 cm. in larghezza.

[4] E' interessante notare come l'artista non abbia voluto interrompere la nota domi­nante della scultura, creando due monocromi che simulano, nei toni ed anche nella forma, vedi gli scalini della base, un gruppo marmoreo. 

[5] La rigorosa impostazione didascalica delle opere della sacrestia, ci fa pensare che la sequenza cronologica dei due episodi dipinti debba porre nel primo armadio la scena de "la tentazione del serpente" e nel secondo quella de "il peccato di Adamo ed Eva", cioè il contrario dell'attuale collocazione. E' probabile che le due tele siano state scambiate di posto in occasione di qualche restauro, tenuto conto, tra l'altro, che non a caso la realizzazione delle luci e delle ombre, operata dal Fontebasso nei chiaro­scuri dei monocromi, presupponeva la fonte luminosa proveniente dalle finestre, cioè fra le due tele: la prima proveniente da sinistra e la seconda da destra, e non viceversa come è sistemato ora.

[6] Marco Ricci (1676-1730) nipote di Sebastiano Ricci, inizia a sperimentare la tec­nica all'acquaforte negli ultimi anni della sua carriera, nel 1723, ed eseguirà una tren­tina di acqueforti. Cfr. D. SUCCI, Marco RICCI 1676-1730, in "Da Carlevarijs ai Tiepolo Incisori veneti e friulani del Settecento, scheda del catalogo, Mirano 1983, pp. 328-343.

[7] Nato nel 1541 da Antonio Manin, divenne familiare di diversi papi, e si distinse per la  grande  avversione al Luteranesimo, costringendo i parenti a rompere le rela­zioni che da secoli i Manin tenevano con la corte inglese, perchè si era ribellata alla Chiesa di Roma, cfr. A. D'ALIA F. TOMASINI, Ludovico Manin ultimo doge di Ve­nezia, Roma 1940, p. 49.

[8] Fu eletto vescovo il 4 luglio 1607 e con quella carica morì nel mese di settembre del 1619. Nel 1620, sulle rovine di Emonia, la Repubblica Veneta edificò  "Civitas nova", Cittanova sulle  rive  del  mare Adriatico, e la sua cattedrale, cui fu posto il ti­tolo dei santi Pelago e Massimo, era suffraganea del patriarcato di Aquileia (HIERARCHIA CATHOLICA, Vol.IV, p. 70).

[9] FRANCESCO MANIN / FIGLIO DI ANTONIO / VESCOVO DI EMONIA / DI SUA ETA' / ANNI 75 / 1616.

[10] Con questo nome vengono definite quelle cornici eseguite fra il XVI ed il XVII se­colo, prevalentemente in toscana e nel veneto, caratterizzate da volute simmetriche ripartite da un motivo centrale per ciascun lato della cornice, cfr.: T. J.  NEWBERY, G. BISACCA, L. B. KANTER, Italian Renaissance Frames, catalogo della mostra al Metropolitan Museum of Art, New York 1990, pp. 70-71, su cortese segnalazione di Andrea Malvezzi; F. SABATELLI, La cornice italiana, dal Rinascimento al Neo­classico, Milano 1992.

[11] G. BERGAMINI, Il Quattrocento &, cit.,  pp. 31-54.

[12] Lugano 1450-1531.

[13] Ed anche quello della chiesa di S. Nicolò a Sequals (1497), oltre all'acquasan­tiera della chiesa parrocchiale di Beano (1519), cfr.: G. BERGAMINI, G. A. Pilcorte &, cit., p.37. Per il fonte di Travesio: P. O.  RUGO, Chiesa di S. Pietro &, cit., pp. 45-50.

[14] P. GOI, Lapicidi del Rinascimento nel Friuli Occidentale, Catalogo della Mo­stra fotografica organizzata dall'Archivio Artistico del Friuli, fotografie di Elio Ciol, S. Vito al Tagliamento 1973.

[15] Che definirei, appunto, acquasantiera piuttosto che fonte battesimale per l'as­senza dei putti ed i riferimenti al numero 8 caratteristici dei fonti.

[16] G. BERGAMINI, Il Quattrocento &, cit., p. 49.

[17] Si è vista una simile ad Udine attorno alla colonna con la statua della Vergine (1487) che sta nella piazza di fronte alla chiesa di S. Giacomo, ed a Venezia, incorni­ciare il rosone della facciata della chiesa di S. Maria della Visitazione (1493-1524), alle Zattere, di Tullio Lombardo.

[18] P.O. RUGO, Chiesa di S. Pietro &, cit., pp. 54-55, fig. 24.